I compleanni sono sempre rischiosi, sospesi tra voglia di celebrare e rimpianti sul tempo che passa. Dieci anni sono, per un Giornale che nacque per essere tale, unetà almeno adulta. Consentono già di ricordare come eravamo – certo con maggiori certezze e schematismi – e di costruire foto di gruppo, ormai affollate, in cui colpisce soprattutto la capacità di coinvolgere, da parte del Giornale, voci senza rappresentanza. Su un punto almeno il bilancio deve però essere trasparente con suoi lettori. Quando, nel novembre 2002, uscì il primo numero, la redazione prese un impegno: contribuire ad ampliare i margini di un dibattito non solo su come larchitettura era vista e discussa dagli architetti, ma anche dal mondo delle professioni, delle imprese, delle associazioni, di chi partecipa alla costruzione e alla vita delle città. E tutti insieme provare a restituire unimmagine dellarchitettura meno formalista e artistica, più vicina al mondo, sfaccettato e difficile da rappresentare, del fare e del vivere larchitettura nel XXI secolo. Per cercare di dare corpo a questimpegno si sono scelte nel tempo strade diverse: dalla disarticolazione per sezioni del Giornale alle Inchieste, dallinserto forse più riuscito, quello che ogni mese restituiva gli articoli più interessanti della pubblicistica mondiale, al dar voce, anche contrapposta, a opinionisti mai identificati però con Il Giornale. Se si guarda come oggi si discute di architettura, quanto e soprattutto se lopinione pubblica sia un po più matura e meno affascinata da semplificazione, da labels whitout necessity, forse il bilancio non è così positivo. Certo sarebbe presuntuoso addossarsi le colpe di questa situazione, ma non possiamo, per quel che ci compete, riconoscere che tanta strada deve ancora essere fatta.
Per non essere tuttavia autoreferenziali, per non guardare il mondo attraverso il proprio ombelico, il Giornale ha scelto di chiedere a studiosi e critici di diversi paesi di restituire lo stato attuale della pubblicistica architettonica. Un quadro che questo numero offre al giudizio dei suoi lettori, non senza accompagnarlo con almeno unosservazione. Al di là dei refrain abituali sulla crisi, sullimpatto delle nuove tecnologie (il quadro sulle riviste on line è inquietante), sul rapporto ambiguo con la pubblicità, il quadro che ne esce sottolinea una stagione di passaggio, in cui in gioco è la funzione storica delle riviste di architettura: quella di costruire insieme una dimensione critica, sicuramente polifonica, e di contribuire a consolidare nuovi immaginari.
Certo esercitare la critica in una stagione che gioca fino in fondo le carte del relativismo, in nome di un diritto quasi tirannico al pari diritto di qualsiasi sperimentazione e a unassenza di comparazione quasi come nuovo statuto epistemologico dellarchitettura, non è facile. Come non lo è contribuire a consolidare immaginari quando la scorciatoia scelta da tanta parte della cultura architettonica per sottrarsi allabbraccio delle società di ingegneria è la bizzarria e quando laccesso allimmagine, cosa ben diversa dagli immaginari, è così immediato. Forse, tuttavia, questo quadro e i dieci anni di difficile esercizio alla critica che voleva e vuole rispondere a un «essere scomunicati secondo le regole di Voltaire» (come gli imputava Rousseau), evidenziano un problema ancora più complesso che sta dietro le difficoltà del fare pubblicistica architettonica oggi: la crisi e, per non essere pessimisti, la scomparsa della «memoria lunga».
Le riviste, ma anche un Giornale come il nostro, hanno ragione di esistere in una società in cui la memoria lunga non è solo la garanzia di quello che si chiama, forse impropriamente, «identità», ma è anche il frutto di una narrazione che rielabora dati, immagini o più semplicemente, conoscenze, e lo fa rimettendo in gioco continuamente quello che la mémoire collective, come la chiama Maurice Halbwachs, conserva e propone.
Oggi che i depositi della memoria sono altrove e tendenzialmente unici e ordinati dalla rete, che senso nuovo si propongono giornali, riviste, pubblicistica, che non sia il consumo e la polemica come programmato fuoco di paglia? Ritornano, oggi più che mai, Horkheimer e Adorno e la loro prima lezione di sociologia a proporre i propri interrogativi sulla critica, sul suo essere – se non diventa strumento di enfatizzazione di individualismi – la possibile garanzia di una Kultur non scissa però da una Civilization, spesso programmaticamente abbandonata. Questa è la strada che il Giornale si appresta a iniziare, il nuovo patto che intende stringere con i suoi lettori.
Lettori che noteranno che manca un bilancio delle riviste italiane. Non è per quieto vivere. Molto più modestamente è perché questo bilancio è stato fatto in occasione della presentazione del numero 100 del Giornale e sarebbe oggi presuntuoso andare oltre le parole di Francesco Dal Co e degli altri direttori presenti allincontro organizzato a Milano il 15 novembre.
P.S. I postscriptum sono sempre fastidiosi. Ma questo è spontaneo. Un grazie a Umberto Allemandi che in un mondo di editori fasulli, ha avuto il coraggio di credere in un progetto davvero fuori dei regimi, e a una redazione mutata in dieci anni ma sempre coraggiosa, capace di prendersi i rischi in prima persona, davvero lideale per un direttore un po calvinista, a volte davvero fastidioso nelle sue autentiche paranoie.