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Venezia: storia lunga, memoria corta

Chi scrive ha avuto l’occasione di partecipare a vari progetti e ricerche per Venezia. A ogni presentazione pubblica la discussione si è aperta sul troppo moderno /troppo poco moderno, troppo grande/troppo piccolo, sì/no per ragioni spesso indipendenti e strumentali rispetto all’oggetto specifico della discussione. Negli anni più recenti ho avuto il privilegio (perché considero tale l’opportunità di poter lavorare per Venezia) di partecipare ad alcuni progetti e processi complessi sia collaborando all’Inserimento architettonico e paesaggistico delle opere del Progetto Mose (affidato allo Iuav), in particolare per la Bocca di Porto del Lido, sia per lo sviluppo del Progetto per il Porto Turistico del Lido nell’ambito di un complesso progetto di alienazione di beni pubblici.
È luogo comune considerare la Laguna «ambiente naturale» e ciò di per sé rappresenta un paradosso nel senso che quello che definiamo tale è il frutto della presenza, al centro della Laguna, di Venezia, una città, ciò che, per sua natura, confligge con un’idea astratta di naturalità. Tutto questo è il frutto di uno straordinario lavorio secolare da parte della Repubblica fino alle decisioni estreme di deviare il corso dei fiumi per impedire interramenti. Manutenzione continua e decisioni radicali si sono intrecciate per consegnarci la straordinaria testimonianza della volontà di permanere «nello impossibile», come dicevano gli antichi, fedeli a una condizione di origine. Come ci ha insegnato Tafuri tale volontà ha sostenuto un’idea di innovazione continua come modo di attingere e alimentare quella fertilità originaria. È proprio il secolo scorso che non capisce forme di razionalità «altra» da quella trionfante della rifondazione tecnologica di un nuovo ordine dello spazio, a confondere permanenza con immobilismo, conservazione con museificazione.
Venezia si inoltra così nel XXI secolo portando a evidenza difficoltà comuni anche ad altre città, ma che in essa trovano tali forme di radicalità da poterla considerare come un grande laboratorio delle contraddizioni della contemporaneità. Città dispersa in maniera geograficamente coerente fra insularità e terraferma il cui assetto territoriale novecentesco è frutto dell’idea della Grande Venezia all’origine della nascita del polo chimico di Marghera, della crescita della parte urbana di terraferma e dell’incremento del uso turistico balneare del Lido cui facevano da supporto le prime indagini sul livello di affollamento, insalubrità e degrado del patrimonio residenziale e monumentale, enormemente provato dalle vicende storiche precedenti e mirabilmente descritto dai narratori novecenteschi.
L’esaurimento di quel modello ha trovato momentanea sintesi nel piano di benevoliana impostazione noto come «Piano per la Città Bipolare il cui limite è di essere stato considerato solo un piano urbanistico».
Il turismo, per esempio e com’è noto, è uno dei settori in crescita in tutto il mondo e trova nella città insulare forme di manifestazione esasperate. Non sono certo sufficienti alcune norme del regolamento edilizio e il lamento di chi comunque ne trae vantaggio da posizioni di rendita che aiutano ad affrontare la questione. Molti dei fenomeni della contemporaneità pongono problemi di governance.
Che cosa significa e come si può affrontare il problema di amministrare e governare una città di migranti se le forme di governo che conosciamo fanno quasi univocamente riferimento alla nozione di residenzialità con le sue antiche origini di essere nata per controllare il vagabondaggio e l’imposizione fiscale? I diritti e i doveri di cittadinanza appartengono solo ai residenti o a tutti coloro che abitano anche momentaneamente una città, un determinato luogo? Che cosa significa accoglienza, e in quali forme, nella dinamica sociale di inclusione-esclusione? In tal senso la prima risposta è nel tentativo di diversificazione dell’offerta e di «usare» il turismo per promuovere operazioni di medio periodo di trasformazione di intere parti urbane, così come potrebbe avvenire al Lido di Venezia nell’ambito di un più generale progetto di riqualificazione e così come sta avvenendo all’Isola della Certosa dove un progetto di risanamento in corso propone di ritrovare una Venezia città di mare e di sport nautici, concorrendo a una rinnovata visione dell’intera bocca di porto come grande parco-arcipelago.
Se la relazione fra poteri e fenomeni non è oggetto di verifica e adeguamento dinamico rispetto agli obiettivi, la sfasatura che si determina alimenta forme retoriche d’intrattenimento spesso irrilevanti o battaglie con armi inadeguate. I particolari connotati della fase storica che stiamo attraversando dovrebbero indurre a una riflessione più attenta a partire dai limiti dello sviluppo piuttosto che a tentare di ritrovare paradigmi di crescita già noti. L’idea stessa di riqualificazione urbana come unica dimensione dell’operare in città che non possono più dar sfogo alle dinamiche economiche consumando indefinitamente suolo pone problemi d’intreccio fra saperi e poteri del tutto irrisolti cui non è lecito rispondere con la fine di qualsiasi idea di piano o programmazione. Ma la mentalità e gli apparati giuridico-normativo-procedurali che possediamo non sono nati per affrontare questi problemi e la loro attuale conformazione. Le città europee sono cresciute e si sono sviluppate sempre in una particolare concatenazione fra intervento pubblico e privato che trova nell’ipotesi della riqualificazione urbana i momenti di massima problematicità.
La città lagunare non è più quella del 1966 dopo la grande alluvione. L’intervento pubblico nella forma delle leggi speciali ha riversato su Venezia rilevanti quantità di finanziamenti che hanno consentito restauri diffusi a sostegno della residenzialità e puntuali interventi sugli edifici monumentali, avviato fasi di manutenzione dei rii, di miglioramento delle condizioni degli scarichi se non un progetto generale di fognatura, consentendo con ciò anche di restituire alla città di terraferma elementi significativi di centralità sociale con il restauro e la pedonalizzazione delle parti urbane centrali, nonché di riconquistare l’affaccio sulla laguna con la realizzazione del grande Parco di S.Giuliano, avviando processi di nuova strutturazione complessiva della città.
Certo, molto è stato fatto e molto resta da fare come in tutte le città che vogliano perseguire un progetto urbano degno di questo nome, cioè che indaghi le possibilità di ricollocarsi nei mutati orizzonti della geopolitica internazionale. In questa prospettiva i modi e le forme per attrarre investimenti e investitori sono uno degli elementi dirimenti non solo per continuare l’opera di manutenzione urbana, ma anche per andare oltre il luogo comune «lasciateci morire in pace» e offrire alle nuove generazioni la possibilità di abitare luoghi non schiacciati dalla loro storia, ma vivi e vitali proprio per la loro lunga storia.
Il caso del processo di recupero e restauro dell’Arsenale può esserne un esempio là dove si possono intrecciare attività culturali promosse dalla Biennale e la costituzione di un polo di ricerca che vede la compresenza di società private e pubbliche attorno ai temi della manutenzione del Mose e della riqualificazione ambientale, proprio là dove non molti anni fa era stata abbandonata qualsiasi attività produttiva legata ai cantieri navali.
Per giocare questa partita la chiarezza del sistema dei poteri, la certezza dei tempi procedurali sono elementi fondamentali, così come la difficoltà di far coincidere progetto economico e progetto finanziario di supporto, nonché l’adeguamento delle forme della fiscalità locale. Ciò descrive un luogo di difficoltà in cui interesse pubblico e privato possono ritrovare le fila dell’interesse comune in una generale idea di riforma. Questa rinnovata dimensione della trasformazione urbana richiede forme di scenario che sappiano intrecciare locale e globale in una visione fondata sulla compresenza e non sull’esclusione reciproca e concorrenziale, competenze assai diverse da quelle che normalmente conosciamo. Richiede una cultura del progetto, anche istituzionale, che sappia accompagnare i processi e non li dissolva nell’indeterminatezza, la capacità di discutere nel merito e di evitare il rifiuto su basi ideologiche.
In questo senso l’attività della Soprintendenza ha saputo uscire dal consunto schema sì/no per condurre processi virtuosi di conservazione e recupero del patrimonio sia in forma diretta, dal prendersi cura (l’allontanamento delle bancarelle di vendita del grano per i piccioni da Piazza San Marco) alle  scelte strategiche come la realizzazione del progetto per le Grandi Gallerie dell’Accademia o il restauro di Palazzo Grimani, sia accompagnando interventi anche privati, dalla Fondazione Vedova alla Fondazione Buziol, dalla riqualificazione dell’area realtina al restauro di Punta della Dogana.
La complessità non può essere sinonimo di opacità o inadeguatezza. Il Sindaco di Venezia non governa l’acqua che è affidata al Magistrato alle Acque, all’Autorità Portuale, alla Capitaneria di Porto….il reticolo dei poteri pubblici non può essere la sommatoria di poteri d’interdizione o la ricerca di reciproche autonomie, ma deve ritrovare forme di sussidiarietà dove le specifiche competenze specialistiche concorrano al conseguimento degli obiettivi della comunità, così come le autonomie funzionali, soprattutto quando erogano servizi anche di interesse pubblico (ad esempio Porto e Aeroporto), non possono attivare politiche aziendali che non considerino le ricadute territoriali dei processi, in consonanza con chi quel territorio deve amministrare in nome della comunità.
Ancora una volta i fenomeni pongono problemi se si vogliono affrontare questioni legate al risanamento ambientale e al paesaggio che, com’è noto, non rispetta i confini amministrativi. Questi aspetti che caratterizzano gran parte del territorio nazionale richiedono tempi di attuazione medio-lunghi e convergenza di poteri e saperi che non appartengono alle tradizionali forme di organizzazione. In questo senso l’invenzione procedurale dell’ultima Legge Speciale di dotare il Magistrato alle Acque, come organo periferico dello Stato, di una struttura operativa costituita da un Consorzio di imprese che ne garantisse l’operatività indipendentemente dai tempi (anche politici) delle amministrazioni locali, non è un aggiramento del livello locale, ma è la costruzione di un esperimento coerente con la complessità del problema, come del resto già affermava il Senatore Luigi Zanda in anni lontani.
Il laboratorio Venezia esaspera la mole e la complessità delle questioni, ma ha il merito di restituirle con assoluta evidenza data la dimensione contenuta della città e le sue caratteristiche geografico-storiche invocando la formazione di una classe dirigente e di una struttura socio-economica adeguate. Ogni semplificazione sembra volgarmente riduttiva, abitare solo la schiuma dell’onda può consentire facili strumentalizzazioni, ma non si può avere una storia lunga e la memoria corta.

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Last modified: 9 Luglio 2015