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Written by: Inchieste

Grand Hotel Venezia

Grand Hotel Venezia

Venezia. È considerata la città più tutelata del mondo, forse la sola che abbia mantenuto pienamente la sua identità storica e architettonica, salvata nei secoli dall’isolamento garantito dall’acqua che la circonda e dall’impossibilità di renderla «normale» senza distruggerla. È per questo che quasi 25 milioni di visitatori, in costante aumento, vengono ad ammirarla ogni anno. Eppure Venezia sta profondamente cambiando la sua immagine, con mutazioni a volte evidenti, altre nascoste, ma non meno profonde. Lo scopo manifesto è renderla, appunto, con una contraddizione in termini, una città normale, per tutelarne la residenza ormai in fuga. La mutazione però riguarda, in realtà, la sua stessa natura di città, a cui sta subentrando, progressivamente, un modello «vincente» di parco tematico turistico-culturale a frequentazione giornaliera, che la sta piegando alle sue esigenze, favorito anche dalla mancanza di risorse dell’amministrazione pubblica per la sua manutenzione, che la rende oggettivamente debole. Il processo, iniziato circa quindici anni fa e favorito anche da un sistema di vincoli sempre più allentato, sta ormai, trasformandola in ciò che Vittorio Gregotti ha definito recentemente «hotel Venezia».

La svolta: via alle trasformazioni interne
È la Variante al Piano regolatore del centro storico, varata nel 1996 dalla prima giunta guidata dal sindaco Massimo Cacciari, a segnare la svolta. Per «movimentare» il mercato, il limite per concedere il cambio di destinazione da residenziale ad altro uso viene abbassato: da 200 mq su un solo piano, a 120 mq, ripartiti anche su piani diversi. Questo favorisce le trasformazioni interne e, appunto, i cambi d’uso per le attività alberghiere ed extralberghiere, con i posti-letto che, dopo il Giubileo del 2000 crescono di quasi 10.000 unità, con la realizzazione di decine di strutture per l’accoglienza dei pellegrini, che poi sono divenuti bed and breakfast. Soprattutto negli ultimi dieci anni diventa la regola la trasformazione e il frazionamento di palazzi storici non più abitati, concessi dal Comune, alle volte d’intesa con la Soprintendenza ai beni architettonici e paesaggistici di Venezia. Così, i posti-letto in città sono passati da 22.000 a 37.000, grazie anche al proliferare del residenziale trasformato in extralberghiero, e solo nel settore alberghiero l’incremento è stato del 100%: da 13.000 a circa 26.000. E il fenomeno continua, modificando profondamente il tessuto immobiliare della città.

Da palazzo ad albergo
La struttura della casa signorile veneziana prevede il salone passante al centro, a volte rialzato con un gradino, che va dal fronte al retro dell’edificio e sul quale si affacciano le stanze, dando a esso un ruolo quasi teatrale, di spazio di rappresentazione, destinato al ricevimento degli ospiti. Le trasformazioni alberghiere o gli ampliamenti a fini di residenzialità diffusa degli edifici avvenuti in questi ultimi quindici anni hanno tutelato questo impianto? Solo in alcuni casi, quando l’intervento ha avuto particolare rilevanza e quando la vigilanza della Soprintendenza e del Comune è stata particolarmente efficace. I problemi ormai cronici di organico degli uffici periferici del ministero dei Beni culturali limitano anche in laguna all’indispensabile ispezioni e controlli nei cantieri. Inoltre, la necessità d’inserire una moltitudine di bagni per le stanze ricavate, proprio per soddisfare le nuove esigenze alberghiere, ha comportato una manomissione delle pareti e dei solai dei palazzi storici, non costruiti a questo scopo. D’altra parte, l’esodo degli «indigeni» e il progressivo venir meno dei fondi della Legge speciale per Venezia hanno colpito il pubblico, come il privato, nel disporre di risorse per la manutenzione e la tutela dell’integrità del patrimonio edilizio veneziano; così, le stesse sedi di aziende e uffici pubblici migrano inesorabilmente verso la terraferma, lasciandosi alle spalle edifici vuoti da riempire e mettere a reddito in qualche modo. Lo stesso Comune, per fare cassa, ha del resto istituito da pochi anni un proprio fondo immobiliare (affidato alla EstCapital di Gianfranco Mossetto, la stessa società che ha acquistato dall’amministrazione a fini turistico-ricettivi l’ex ospedale al mare del Lido) per valorizzare i propri immobili non più utilizzati. Quasi tutti gli edifici posti in vendita prevedono già il cambio di destinazione d’uso a fini alberghieri per renderli più commerciabili e su alcuni, come Palazzo Gradenigo e Palazzo Diedo (che ora ospitano, rispettivamente, la sede della società informatica del Comune e alcuni uffici giudiziari), ci sarebbe già il forte interesse d’investitori cinesi. Ma non è solo il Comune a cedere le proprie sedi a fini alberghieri. In quella che fino a pochi anni fa era la sede del Tar del Veneto, la settecentesca Ca’ Corner Reali, a due passi da Rialto, aprirà tra pochi mesi un albergo.

Da palazzo a vetrina
L’altro potente fattore di trasformazione dell’immagine architettonica di Venezia è legato al suo uso come vetrina per conto terzi. Imprenditori di successo o grandi gruppi industriali ormai «investono» sul tessuto immobiliare veneziano, non sulla città in quanto tale, per valorizzare il proprio marchio o i propri progetti, trovando, anche da parte dell’amministrazione comunale, terreno fertile, sempre per l’indigenza economica che ormai condiziona ogni scelta. Il caso più recente è quello di Benetton, con la sua controllata Edizione Property, per la trasformazione del cinquecentesco Fontego dei Tedeschi, acquistato dalle Poste, in un modernissimo centro commerciale, secondo il progetto dello studio dell’archistar olandese Rem Koolhaas, il cui nome per l’intervento fu tra l’altro suggerito al committente proprio dal sindaco uscente Cacciari. L’esito del progetto è ancora incerto (dopo la bocciatura da parte del Comitato per i Beni architettonici e paesaggistici del Mibac, il cui parere ha però solo valore consultivo), e con esso quello della terrazza panoramica con vista ponte di Rialto, demolendo parte del tetto e delle scale mobili interne. Del resto è lo stesso gruppo Benetton che, d’intesa con il Comune avviò appunto una quindicina di anni fa la ristrutturazione di tutto il complesso affacciato su calle Vallaresso, a pochi metri da Piazza San Marco, che comportò di fatto il silenzioso smantellamento di uno dei più bei teatri veneziani settecenteschi, il Teatro del Ridotto (ancora attivo), inglobato nella ristrutturazione dell’adiacente hotel Monaco.
Ma il gruppo Benetton non è l’unico attore immobiliare. È stato lo stesso Comune, alle prese con i problemi di bilancio, a insistere perché Prada trasformasse la concessione d’uso di Ca’ Corner della Regina (settecentesco palazzo che ospitò la regina Caterina Cornaro e che in anni più recenti fu la sede dell’Asac, l’Archivio storico delle arti contemporanee della Biennale) per ospitarvi le opere della fondazione artistica legata alla stilista milanese, nell’acquisto vero e proprio del palazzo. Disponibile anche a concedere a Prada il cambio di destinazione d’uso per riservarlo interamente a uso residenziale. Lo sarà in realtà solo in parte e negli ultimi piani (per il vincolo posto in extremis dalla Direzione regionale dei Beni culturali del Veneto, che altrimenti avrebbe rifiutato il nulla osta) ma i lavori per la sua trasformazione sono già iniziati.
E non si tratta di casi isolati. La prossima vetrina in via d’aggiudicazione è lo straordinario Palazzo Labia ornato dagli affreschi del Tiepolo, sede regionale della Rai già posta in vendita dall’azienda. E a proposito di vetrine, lo diventerà presto anche il complesso dell’ex Pilsen, in Bacino Orseolo, anch’esso alle spalle di Piazza San Marco. Il Comune lo ha già venduto a trattativa privata alla Mediterranea Sviluppo di Piero Coin, eliminandone la classificazione a unità edilizia residenziale ottocentesca, autorizzando così la sua trasformazione in centro commerciale (si parla del gruppo Zara) con possibilità di scavare le fondamenta per posizionarvi gli impianti. Ma, senza citare François Pinault, e l’affido avuto dallo stesso Comune per il suo impegno economico nel ristrutturare Palazzo Grassi e Punta della Dogana per ospitarvi la sua collezione d’arte contemporanea, l’elenco delle vetrine veneziane aggiudicate o in via di aggiudicazione potrebbe continuare. Dalla sansoviniana Scuola grande della misericordia, a Cannaregio, da anni in stato di abbandono, che dovrebbe diventare un moderno fondaco, alla stessa stazione ferroviaria di Santa Lucia in cui, auspice Grandi stazioni (cioè Benetton-Caltagirone-Pirelli), fervono i lavori per la trasformazione in un’altra sorta di grande centro commerciale, con binari.

L’arredo urbano
L’immagine di Venezia è in rapida trasformazione/stravolgimento anche per ciò che riguarda il suo arredo urbano, che andrebbe ormai definito, più correttamente, come arredo turistico. Le maxiaffissioni pubblicitarie che coprono i ponteggi dei monumenti dell’area marciana, ma anche del Canal Grande, per finanziare in parte i loro restauri, enormi, chiassose, coloratissime, sono ormai da anni, come sappiamo, un elemento fisso del paesaggio veneziano e la loro presenza altera profondamente la percezione visiva delle parti più significative della città e dei suoi monumenti. Il Comune, che con la Soprintendenza le permette invocando lo stato di necessità per mancanza di risorse per i restauri che esse consentirebbero, non riesce a imporre almeno un codice visivo. Vedremo presto come saranno quelle sul ponte di Rialto, per il cui restauro il Comune ha bandito l’avviso pubblico per la ricerca di uno sponsor (da tempo favorita la Diesel di Renzo Rosso).
Quanto ai nuovi pontili dell’Actv, l’azienda di trasporto acqueo, ai Giardinetti reali, come alla Pietà o al Lido hanno ormai le dimensioni e le caratteristiche di terminal aeroportuali, negando dalla riva o dall’acqua, a causa delle loro dimensioni, la vista di parti di città. Come fanno le maxinavi da crociera grandi come grattacieli che solcano il Bacino di San Marco in attesa di un divieto effettivo di passaggio che molti dubitano verrà mai. Intanto per il disturbo, il Comune pensa di chiedere già da quest’anno un obolo volontario ai 2 milioni di crocieristi che a Venezia sbarcano o da essa salpano con vista su Piazza San Marco.
E poi ci sono i plateatici, o meglio l’invasione di tavolini e sedie da bar e ristorante, di ogni colore e foggia, in larga parte ormai stabili, ma che soprattutto da maggio a novembre occupano campi e calli cittadine. Spesso al di fuori di ogni regola, con il plateatico di un campo che fa riferimento a un bar che si trova in una calle successiva, con il cameriere a fare la spola. Rigidi principi fissati dalla Soprintendenza in accordo con il Comune li vieterebbero in una lunga serie di campi cittadini, ma anche lungo le facciate di chiese e edifici monumentali o vicino agli imbarcaderi. Vietato anche circondare vere da pozzo di campi pubblici con una selva di bar e tavolini. Ma basta una passeggiata di pochi minuti per rendersi conto che non è così. I «pianini» urbanistici fissati dalla precedente giunta (oltre una quarantina) che stabilivano per ogni zona della città e per sempre la percentuale di occupazione di suolo pubblico sono ancora in larghissima parte inapplicati, anche se ora il Comune annuncia l’adozione di un nuovo e più severo regolamento sui plateatici, punendo gli abusivi.
Ma c’è, infine, anche la modificazione «artistica» dell’arredo urbano, che contribuisce a cambiare l’immagine della città in alcuni dei suoi luoghi-simbolo. Un esempio per tutti: quello del «Ragazzo con la rana», la scultura dell’americano Charles Ray, piazzata all’estremità della Punta della Dogana (dov’era prima un lampione) dall’apertura della collezione di arte contemporanea di Pinault, nel giugno 2009. Doveva essere un’esposizione temporanea, legata alla mostra di apertura, ma sono passati tre anni e la statua è ancora lì, nuovo simbolo della Dogana, a forza di autorizzazioni provvisorie continuamente rinnovate.

Il caso Arsenale
In una città dove la nuova edificazione è praticamente bandita, il complesso monumentale dell’Arsenale, per secoli cuore dell’industria navale della Serenissima, con i suoi quasi 500.000 mq di spazi in buona parte dismessi, rappresenta da tempo una formidabile occasione per localizzarvi nuove funzioni, e non a caso proprio a esso avevano pensato, per farne il cuore dell’evento, i promotori dell’Expo del 2000 in laguna, poi naufragata per i timori legati al suo impatto sul tessuto urbano. Qui doveva fare tappa l’ipotizzata metropolitana sublagunare, per collegare direttamente quest’area alla terraferma e all’aeroporto di Tessera, diversificando i flussi turistici in arrivo. L’Arsenale è già da qualche anno in lenta trasformazione, scatenando interessi in parte contrastanti. Da quelli del Comune, che ha chiesto di recente al Demanio di ereditarne la parte nord per i propri progetti, dopo una gestione condominiale condotta attraverso la società mista Arsenale Venezia spa, che li vede entrambi soci. A quelli del ministero della Difesa, già incardinato da anni nella parte sud con la Marina militare e il suo Istituto di studi militari marittimi, che con il ministro uscente Ignazio La Russa aveva pianificato una grossa operazione di tipo turistico, ora in stand-by, con la realizzazione di un albergo nel complesso degli ex sommergibilisti e una vicina darsena turistica nell’isola di Sant’Andrea. Per arrivare agli interessi del pool d’imprese che fanno capo al Consorzio Venezia Nuova (già presente da anni nell’area con la società di tecnologie marine Thetis, controllata dal Consorzio), che qui vorrebbero mettere radici visto che all’Arsenale, nell’area dei Bacini, è prevista nei prossimi anni la manutenzione dei cassoni del Mose, il nuovo sistema di dighe mobili alle bocche di porto per la difesa dalle acque alte eccezionali.
A spingere con lungimiranza per il recupero dell’Arsenale per le Mostre internazionali di Arte e Architettura, ma anche per il Teatro e la Danza, dopo decenni di disinteresse cittadino è stata la Biennale a fine anni novanta con l’allora (e ancor oggi) presidente Paolo Baratta; e le maggiori trasformazioni finora avvenute, rispettando l’architettura originaria degli edifici cinquecenteschi, sono dovute proprio al riuso a fini espositivi di spazi come le Corderie, le Artigliere, le Tese, le Gaggiandre e ora il complesso delle Sale d’Armi, che ospiterà nuovi padiglioni stranieri, dall’Argentina al Vaticano.
Ma se quelle espositive sono ormai consolidate (anche se con un carattere di stagionalità riservato all’estate per la mancanza di climatizzazione e infrastrutturazione degli ambienti) è sulle funzioni produttive e residenziali che si gioca buona parte del futuro sviluppo dell’Arsenale, al di là del mantenimento della presenza della Marina. Anche i nuovi spazi recuperati da Arsenale Venezia spa in questi ultimi anni con i lavori condotti dal Magistrato alle acque (dalle Tese di San Cristoforo, alla Torre di Porta Nuova, alle Tese 105 e 113) sono per ora sottoutilizzati e limitati soprattutto a funzioni espositive e di rappresentanza, al di là dell’auspicio sulla loro funzione d’incubatori d’imprese innovative. Gli arrivi sono timidi, ultimo quello del Cnr, con alcuni laboratori, accanto a Thetis e Consorzio Venezia Nuova. Ma non sono i progetti, e gli interessi, a mancare sul recupero dell’Arsenale. Sempre in rampa di lancio, ad esempio, la nascita di un Centro per il restauro dell’arte contemporanea «tecnologica», promosso dal ministero dell’Innovazione. Quelli che mancano sono i soldi. Servono circa 500 milioni (lo ha ricordato anche di recente il presidente di Arsenale Venezia spa Roberto D’Agostino) per infrastrutturare e rendere interamente fruibile il complesso. Difficile attirare imprese e investitori in uno spazio pur straordinario, se non si è in grado di offrire aree già utilizzabili. Ma le risorse pubbliche per farlo, non ci sono più.

Il caso Lido: l’architettura «commissariata»
Ciò che sta accadendo negli ultimi anni al Lido è la dimostrazione di un cambiamento urbanistico e architettonico non governato, guidato da logiche mosse dall’indigenza economica del Comune e dagli interessi, legittimi ma con fini speculativi, di chi a esso si sta sostituendo: la società EstCapital dell’ex assessore comunale alla Cultura e turismo, l’economista Gianfranco Mossetto. Tutto nasce dall’operazione dell’ipotetico nuovo palazzo del Cinema (un «buco» nella terra piena di amianto che verrà chiuso solo quest’estate dopo circa 40 milioni di fondi pubblici spesi) promosso dalla Biennale con il Comune, ma per la quale nessuno era in grado di assicurare le risorse necessarie, perché lo Stato (che pure era la stazione appaltante) e la Regione si sono impegnati fin dall’inizio solo in minima parte nell’opera. Decisiva la scelta dell’allora sindaco Cacciari di rompere gli indugi e fare del Comune, già all’epoca a corto di fondi, il principale finanziatore del nuovo Palacinema ricavando le risorse necessarie dalla vendita ai privati del complesso dell’ex Ospedale al mare. Un passo accompagnato dalla richiesta al Governo Berlusconi della nomina di un commissario con poteri emergenziali di Protezione civile. Un modo per accelerare le pratiche, bypassando così tutti i normali controlli e autorizzazioni urbanistiche, comprese quelle rilasciate dal Consiglio comunale. Sono ormai passati quattro anni dalla posa della prima pietra di quel Palazzo del Cinema, che doveva essere finito oltre un anno fa in occasione delle celebrazioni per il 150° dell’Unità d’Italia e non è mai nato, mentre la stessa vendita dell’ex Ospedale al mare a EstCapital e alle imprese a essa collegate da parte del Comune non si è ancora conclusa: lo sarà forse quest’estate. Il risultato ottenuto nel frattempo è che la nuova pianificazione urbanistica e architettonica del Lido è stata affidata con procedure eccezionali a una società privata che si è di fatto sostituita al Comune. Così il complesso dell’ex Ospedale al mare (che ancora ospita il Distretto sanitario del Lido) vedrà abbattuti buona parte dei padiglioni novecenteschi seppur vincolati dalla Soprintendenza, nonché trasferito il Distretto dalla parte opposta di Venezia, radendo al suolo il Padiglione Rossi nonostante le promesse pubbliche circa la sua intangibilità fatte un tempo da Cacciari. Qui dovrebbe sorgere invece il complesso «La marina grande di Venezia»: 500 residenze turistiche di dimensioni variabili dai 50 ai 300 mq, con una spiaggia da 300 nuove capanne balneari, a cui si è aggiunto in corso d’opera (autorizzato dal Comune in cambio di maggiori risorse), il porto turistico più grande dell’Adriatico, in grado di ospitare fino a 1.000 imbarcazioni di ogni dimensione.
L’operazione commissariale legata al Palazzo del Cinema consentirà a EstCapital anche la riconversione, già avviata, dell’hotel Des Bains, l’albergo Liberty dove Luchino Visconti ambientò «Morte a Venezia», al cui interno saranno ricavate 64 residenze turistiche oltre a quattro ville distribuite nel parco. In più, sia la ristrutturazione del novecentesco hotel Excelsior, gemello del Des Bains, sia la trasformazione del forte ottocentesco austriaco di Malamocco in un centro benessere con piscina, con la costruzione di una trentina di villette con garage e un albergo di 3/4 piani.

Una città a uso esterno
L’idea trasmessa per anni dall’amministrazione Cacciari per il suo sviluppo futuro è stata quella della città bipolare, con i due poli del centro storico e di Mestre uniti nella diversità, con quello più vitale della terraferma a garantire anche quello d’acqua, chiamato a sua volta a puntare su produzioni con esso compatibili, come quelle immateriali legate alle nuove tecnologie, alla ricerca, alla cultura. Ma l’idea non è mai decollata. L’esodo è continuato, i due poli restano distanti e i nuovi attori non sono mai arrivati. Ma non sono maturati, nel frattempo, un’idea o un progetto alternativi.
La città oggi vive di turismo e, solo in parte, di cultura, senza avere più le risorse pubbliche (i fondi della Legge speciale per Venezia) per tutelare la sua base sociale e la sua stessa immagine. A deciderne i cambiamenti sempre più tumultuosi non è più il Comune, a causa della sua debolezza economica, bensì i soggetti, soprattutto privati, che sono disposti a investire su di essa per logiche commerciali o di rappresentanza del tutto autoreferenziali. I mutamenti urbanistici e architettonici, le trasformazioni d’uso degli edifici, le nuove funzioni che sono chiamati a rivestire, sono il frutto di queste logiche esterne e personali. Non è un caso che al bilancio di previsione 2012 del Comune e al piano delle opere pubbliche, da quest’anno sia allegato un listino per gli sponsor con monumenti e edifici da restaurare per i quali non ci sono più risorse. Dalle volte del portico delle Procuratìe Nuove (950.000 euro) al pavimento delle Procuratìe Vecchie (150.000), al ponte della Zecca (1 milione), alle vere da pozzo, restaurabili per poche decine di migliaia di euro. Decida chi può e chi vuole ciò che è meglio per Venezia.
q Enrico Tantucci

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Last modified: 20 Luglio 2015