Quasi ogni giorno si alza un lamento, una rivendicazione, un grido dallarme sul destino della cultura in Italia. Quasi ogni giorno si accumulano proposte sulla valorizzazione possibile di musei, piazze, monumenti, collezioni. Quasi come i disegni di Ursel e Karl-Ernst Herrmann accompagnano la bella messa in scena nel 1991 de Il flauto magico, così un registro sembra mettere in scena laltro.
Certo è sempre più evidente e dichiarato il disagio generato dai vuoti diniziativa ministeriale di fronte a questanima doppia del problema. È indubbio che il ministero, non il solo ministro, dei Beni culturali denunzi unincapacità a decidere. Lo fa su piccole cose, ma molto influenti nelribadire lapprossimazione con cui si muove la politica italiana: è ad esempio il caso della nomina del responsabile del Padiglione Italia alla Biennale di architettura che si apre il 29 agosto a Venezia. Lo fa su grandi cantieri di restauro, da Brera a Pompei, dove pure esisterebbero risorse da spendere. Ma non è solo il Mibac a presentarsi senza costume al ballo Excelsior. Il ministro, ma anche in questo caso il ministero, dellUniversità e della ricerca scientifica ha portato come esempio virtuoso la Finlandia, paese dove per accedere a ruoli dirigenziali nella pubblica amministrazione occorre il dottorato di ricerca. Problema insieme di produttività del settore pubblico e di capacità di un paese di non «sprecare» risorse umane su cui tanto ha investito. Ma così è, cambiando scala, per lagenda digitale, programma europeo fondamentale rispetto al quale lItalia è in ritardo. Piani diversi che hanno in comune lassenza di strategia e trasparenza; mentre, un po paradossalmente, sono accumunati dallassenza di spese o di nuovi investimenti.
Altri e più delicati piani riguardano lo scivoloso terreno della valorizzazione e lillusione che grande sia bello. I due piani non sono troppo distanti. Entrambi confondono il mezzo con il fine. Valorizzare è parte di una democrazia deliberativa che sa riconoscere le «cose» su cui può agire, che rifiuta una tecnica senza valori, che postula la possibilità dellautocorrezione. Al di là di una spending review che si auspica presto possa partire, non si capisce quali processi di valorizzazione seguano queste linee. Lo stesso dicasi per lincredibile ammucchiata che lapplicazione della legge Gelmini sta producendo nelle strutture e nelle attività di ricerca delluniversità italiana, finendo con lannullare anche in questo caso il senso stesso di una ricercata democrazia deliberativa e generando un consociativismo che ne è proprio la negazione.
Ma come per le scene e i disegni degli Herrmann, per rimanere alla metafora iniziale, è forse necessario pensare che un po di autocorrezione, forse di autocritica, sarebbe necessaria anche per i protagonisti della scena culturale. A iniziare da una difesa della lingua, come lingua viva e mutevole. In Italia si assiste a paradossi quasi irrintracciabili anche nelle pièce teatrali di Jean Anouilh. Quasi tutte le comunità scientifiche italiane, con diverse e forse ragionevoli motivazioni, scrivono non solo in inglese, ma su riviste nate e progettate in paesi anglosassoni. Si può arrivare al grottesco di un Politecnico, quello di Milano, che sembra voglia offrire tutti i suoi corsi di laurea magistrale in inglese. Al di là del mix di provincialismo e di subalternità che denunziano, queste scelte evidenziano anche una mancanza di memoria, preoccupante in comunità scientifiche: la scelta dellinglese come lingua unica delle comunità scientifiche sembra quasi una nostalgia del latino un po maccaronico, mi si consenta lironia, da cui si distaccarono tra fine Cinquecento e inizio Seicento per prime proprio le scienze esatte, valorizzando con le loro lingue la loro cultura. Da dove inizia la resistenza della cultura allessere messa in discussione proprio come common good e non come privilegio di pochi? Forse dal saper fare della propria lingua (con tutto quel che significa) il veicolo di un incontro tra società che è però minato da una doppia cattiva interpretazione del multiculturalismo: quella che a produrlo sarebbe il mercato e quella che implichi laffermazione di tecniche e organizzazioni prive di valori.
La cultura e la lingua sono risorse i cui sistemi valoriali diventano fonte di diversità, di confronto, di ricchezza e non didentità e muri di ogni specie, se non di fondamentalismi, solo se sono viste come risorse, non come «riserve». Quello che sta, purtroppo silenziosamente, avvenendo è un nuovo distacco tra lingua delle comunità scientifiche e lingue parlate. Quale idea di cultura e società nasconda questo processo, si può lasciare allimmaginazione di chi legge. Non cè invece bisogno dimmaginazione per verificare che cosa producono inerzia e tecnocrazia nelle scelte delle politiche ministeriali sulla cultura.
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