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Matteo RobiglioWritten by: Inchieste

Come si fa a diventare sudtirolesi: 6 ricette

Come si fa a diventare sudtirolesi: 6 ricette

Il «modello» Alto Adige-Südtirol sembra inverare il sogno ricorrente della qualità diffusa: molte realizzazioni di buona architettura in un quadro urbano, territoriale e paesaggistico saldo, con una regia pubblica capace di stimolare e indirizzare il mercato privato. William Morris apprezzerebbe il peculiare südtiroler mix di tradizione e innovazione tecnica, di saper fare artigianale e di produzione industriale, di cura del paesaggio e di cultura dell’abitare. Alcuni ingredienti del mix sono di antica origine, quasi espressione di un ethos etnico gelosamente custodito: ad esempio, la sensibile attenzione al paesaggio-landschaft come espressione visiva ed esperienziale della Heimat (propriamente «m?tria» pi? che patria). Altri, come l’attenzione all’energia, mostrano la capacità di tradurre in politiche, tecnica e pratiche nuovi temi della contemporaneità. Vale in questo settore lo specifico vantaggio competitivo di potere attingere, grazie all’appartenenza al mondo culturale germanico della «minoranza dominante» sudtirolese, al serbatoio di ricerca ed esperienza che la Germania ha elaborato a partire dalla presa di coscienza della crisi ecologica del modello industriale di produzione e insediamento, forse la più nitida e radicata in Europa, a partire dalla nascita dei movimenti grün dopo la crisi petrolifera del 1973-74.
Fermarsi a questi due vettori sarebbe però come entusiasmarsi per le biciclette ad Amsterdam per poi tornare a Milano e dirsi che gli olandesi «sono diversi da noi». Occorre invece capire in profondità come il Sudtirolo sia arrivato a costituire un modello territoriale integrato di eccellenza, per capire cosa e come sia trasferibile in altri contesti. Conta certo la formidabile disponibilità di denaro pubblico e d’indirizzo della spesa, prodotto dello Statuto di autonomia, con trasferimenti dallo Stato di circa 8.000 euro e un saldo positivo di circa 3.000 euro pro capite anno. Ma vi è un’indubbia efficacia nella spesa, e più in generale delle politiche, ed è da qui che si può imparare.
Nel 2011 Legambiente ha pubblicato i risultati di una verifica su 100 case certificate in «classe A» energetica in Italia: 89 erano ben lontane dai valori dichiarati e asseverati. Le 11 «doc» erano tutte state certificate da Casaclima-KlimaHouse. A fronte di un’incredibile dispersione normativa, per cui ogni regione italiana ha normato in autonomia il cosa e il come del risparmio energetico (nel silenzio degli ordini professionali, cui evidentemente non importa che varcare il Ticino o il Rubicone significhi per ingegneri e architetti dover cambiare parametri e metodi di progetto) nessuna ha saputo o voluto cogliere l’elemento cruciale di efficacia di una politica di trasformazione edilizia estesa, che pure il modello sudtirolese indica con chiarezza: la costituzione di un’autorità indipendente di proprietà pubblica ma con statuto privato e completa autonomia, a cui affidare il compito di certificare le diverse fasi di sviluppo di un’iniziativa edilizia, dal progetto alla realizzazione, con controlli in situ sul 100% dei casi – non «a campione». È per questo che oggi il protocollo Klimahaus viene adottato, anche al di fuori del proprio territorio di competenza legale, come marchio volontario di qualità. Primo ingrediente quindi: un sistema in cui i valori che ci si scambia (valori anche monetari, visto che ormai un po’ dappertutto risparmio energetico significa incentivi e riduzioni fiscali) sono valori certi e non definiti a propria convenienza dalle parti in gioco. Secondo ingrediente: una normativa agile, facile da applicare, pensata per un mercato professionale operativo e non accademico, completata dalla messa a disposizione di strumenti di calcolo condivisi e una massiccia opera di diffusione e formazione. Non vale solo per i protocolli Klimahaus: l’esplodere del tetto verde estensivo nel paesaggio urbano della Bolzano industriale nasce ad esempio dall’applicazione dell’indice di riduzione dell’impatto edilizio (Rie), volto a contenere l’impermeabilizzazione dei suoli, accompagnato da un facile programma di calcolo condiviso da operatori, professionisti, pubblica amministrazione. Su questa «lingua comune», ben più importante del tedesco, si è innestata la costruzione di una filiera produttiva basata sulla qualità certificata del prodotto, che va dai progettisti agli artigiani edili alle imprese fino ai produttori industriali di componenti per la costruzione ecologica e a basso consumo, con marchi come Holzbau, Naturalia Bau, Wolf Fenster per citare solo i più noti tra quelli che ormai costituiscono un vero e proprio comparto produttivo locale con forte proiezione nazionale e capacità d’innovazione. Terzo ingrediente, la capacità di cambiare rotta, uscendo dall’entusiasmo del neofita per la sperimentazione spinta e adottando un più pragmatico approccio quantitativo come quello che ha portato l’Ipes (Istituto provinciale edilizia sociale) a prediligere la classe B rispetto alla A nei propri interventi più recenti, dopo un decennio di valutazioni costi-benefici su casi concreti, dalle prime classe A fino alle case passive per edilizia sociale. Quarto ingrediente, l’aver applicato su vasta scala le scelte politiche attraverso l’azione pubblica e privata, come nella realizzazione dei mille appartamenti classe A del quartiere Casanova a Bolzano, in un quadro che sposa internazionalizzazione (masterplan di Architekten Cie di Amsterdam) e crescita del professionismo locale negli incarichi a scala edilizia, con risultati eccellenti come nell’isolato di Mayr-Fingerle per le cooperative cattoliche tedesche. Quinto ingrediente, la laica fiducia nella mobilitazione dell’interesse privato a fine pubblico, come nell’adozione di norme edilizie, a Bolzano e altrove, che premiano il risanamento energetico con cubature aggiuntive da spendere in situ, in un’opera pervasiva che oltre che migliorate performances energetiche promette anche una rivisitazione radicale del paesaggio urbano ereditato dagli anni sessanta e settanta. Sesto, la coscienza di come qualità energetica, territoriale, ambientale e architettonica siano obiettivi integrati di area vasta, da perseguire strategicamente più che da enunciare nei documenti di piano. Un viaggio in val Venosta, per fare un esempio, ci porterebbe dal Vigilius di Matteo Thun (matrice della nuova politica Klimahotel) alle piccole stazioni della metropolitana di valle fino alle centrali a biomasse consortili che hanno chiuso il ciclo tra produzione agricola e consumi energetici urbani in sistemi ormai autosufficienti: un insieme territoriale integrato di punti e reti di alta qualità e capacità economica, sempre però sul limite di finire vittima del proprio stesso successo. Qua e là il paesaggio sudtirolese mostra i segni di un’intensificazione eccessiva degli usi, pur governata e disegnata: nei siti di punta del turismo alpino, nella suburbanizzazione strisciante della campagna a Bolzano, in un’agricoltura di pianura compiutamente artificiale, nel conflitto endemico tra usi diversi dello spazio, nella crescente difficoltà di scelte infrastrutturali pur in un sistema sostanzialmente monocratico.
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Autore

  • Matteo Robiglio

    Architetto e professore ordinario in Progettazione architettonica e urbana al Politecnico di Torino. Svolge attività di ricerca sul ruolo del progetto nella trasformazione della città e del paesaggio contemporaneo. Nel 2017 ha fondato FULL - Future Urban Legacy Lab, un nuovo centro interdipartimentale di ricerca sul potenziale dell’eredità storica nelle città che affrontano le sfide globali della contemporaneità. Nel 2015 è stato German Marshall Fund Fellow in Urban and Regional Studies. È autore con Giovanni Durbiano di "Paesaggio e architettura nell'Italia contemporanea" (Donzelli 2003). Ha recentemente pubblicato "RE–USA: 20 American Stories of Adaptive Reuse" (Jovis 2017)

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Last modified: 20 Luglio 2015