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Davide DeriuWritten by: Reviews

Koolhaas: «Sono una macchina che produce critica»

Koolhaas: «Sono una macchina che produce critica»

Londra. Architettura come work in progress. È questo il tema della retrospettiva dedicata dal Barbican a uno dei fenomeni architettonici del nostro tempo: l’Office for Metropolitan Architecture (Oma), fondato da Rem Koolhaas e soci a Londra nel 1975, è oggi non solo uno degli studi più affermati al mondo (con sedi a Rotterdam, New York, Pechino e Hong Kong) ma uno straordinario laboratorio d’idee dove si fa architettura e molto altro. Mentre la City accoglie il primo edificio permanente firmato Oma nella capitale britannica (la nuova sede della banca NM Rothschild & Sons) il Barbican ne celebra l’opera, o meglio, l’operare: ossia quella prassi laboriosa e invisibile che viene spesso schiacciata dalla dittatura del magico «prodotto finale». Raccogliendo la sfida dagli stessi architetti, i curatori belgi del gruppo Rotor hanno scandagliato lo studio di Rotterdam e ne hanno rivelato in modo efficace il modus operandi. Il risultato è una vertiginosa immersione nell’universo Oma, un assemblaggio di frammenti eterogenei che esalta genio e indeterminatezza. Si tratti di sedia o metropoli, di libro o ascensore, ogni progetto comincia dal ripensare radicalmente il suo oggetto.
Piuttosto che inseguire improbabili categorie tematiche, la mostra presenta una serie di «oggetti trovati» come tracce di un percorso intellettuale aperto a varie letture. L’effetto è volutamente destabilizzante, come tutto quel che fanno Oma e il suo clone Amo, il think tank specializzato in media e design lanciato da Koolhaas nel 1998. Si va da un modello di gonna roteante sopra uno specchio («Prada Waist Down») a foto e modelli del colossale edificio Cctv a Pechino, attraversato per tutta la lunghezza da uno zigzagante percorso pubblico. E così via provocando, con molteplici variazioni sul tema del progress in bilico tra il serio e il faceto. La proiezione dell’intero archivio digitale di Oma (3,5 milioni d’immagini per una durata complessiva di 48 ore) è così rapida da essere inguardabile. «The medium is the message», mai stato così vero. Un’occhiata più furtiva si può dare alla Secret Room interamente tappezzata di schizzi, appunti e documenti recuperati dai rifiuti dello studio di Rotterdam: l’ufficio visto «dal didentro».
Tecniche e linguaggi diversissimi fra loro mostrano un’attitudine onnivora che fagocita ogni realtà per poterla assimilare e interpretare in modi nuovi. Questa mescolanza di realismo e utopismo ha del resto attirato critiche feroci, specie da chi considera Koolhaas un’archistar perfettamente a suo agio nel sistema del capitalismo globale, con tutte le sue nefande implicazioni. Un esempio ormai decennale della propensione a fare il gioco del branding è la famosa proposta di bandiera per l’Ue ispirata al codice a barre, mirata nelle intenzioni a ridurre il «deficit iconografico» dell’Europa. Gesto radicale o mera complicità? Di certo, Oma stesso è divenuto un brand globale. Ma per Koolhaas resta prima di tutto una partnership intellettuale; anzi, sarebbe stata proprio la sua indifferenza al denaro a fornirgli «la spietatezza necessaria per perseguire la creatività a ogni costo», come ha dichiarato durante l’evento «Oma show & tell» al Barbican, la prima uscita pubblica del gruppo che ha registrato il tutto esaurito. Parole che chiamano alla mente un altro visionario del nostro tempo, Steve Jobs, scomparso il giorno d’apertura della mostra.
Un aspetto chiave che emerge da «Oma/Progress» è l’importanza della ricerca progettuale nelle sue varie forme. Dallo studio sui materiali (vetro strutturale per la Casa da Musica di Porto, schiume di poliuretano per Prada, ecc) all’analisi delle tipologie urbane (vedi il museo d’arte, inteso non più come grande edificio ma microcittà a sè stante), il progetto combina l’impulso all’innovazione con una meticolosa ricerca interdisciplinare. Come sottolinea ancora Koolhaas, Oma cerca sempre di esplorare questioni emergenti in altri campi, «a prescindere da quello che facciamo come architetti». Si spiega così come il lavoro creativo nasca spesso non da committenze ma da sollecitazioni interne: dagli innumerevoli abbozzi per un libro su Lagos alle ricerche in corso su campagna e migrazione. Una sala dedicata alle preoccupazioni attuali di Oma/Amo illustra il tentativo costante di anticipare i mutamenti della società, piuttosto che seguirli. Sui risultati si può certo discutere, anzi si deve. Koolhaas del resto è il primo a sottoporre ogni progetto a vaglio critico, quale che ne sia l’esito. «I am a criticism machine», ha detto di recente. A ben vedere, questa mostra è un tributo alla sua inguaribile criticità, e a un work in progress che va avanti da 36 anni.
«Oma/Progress», a cura di Rotor, Barbican Art Gallery, Londra, fino al 19 febbraio
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Autore

  • Davide Deriu

    Vive a Londra, dove è Reader in storia e teorie dell’architettura presso l’Università di Westminster. Formatosi al Politecnico di Torino e alla Bartlett (UCL), si occupa di culture della rappresentazione a diverse scale, dal modello alla città. Ha contribuito a riviste come The Journal of Architecture, Architectural Theory Review, Abitare e Vesper, ed è stato redattore di Architectural Histories. Fra le mostre che ha curato: "Modernism in Miniature: Points of View" al Centro Canadese d’Architettura. È stato Fellow della British Academy, Colin Rowe lecturer al RIBA e visiting professor all’Università Iuav di Venezia. Collabora con "Il Giornale dell’architettura" dalla sua fondazione

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Last modified: 22 Luglio 2015