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Written by: Inchieste

Lei non è il Re di Francia

Uno dei miei film preferiti è La fonte meravigliosa, il drammone di King Vidor tratto dal romanzo di Ayn Rand in cui Gary Gooper interpreta Howard Roark, un geniale architetto tormentato che ricorda, non troppo alla lontana, Frank Lloyd Wright, il quale avrebbe preferito far saltare il suo capolavoro con la dinamite piuttosto che vederlo compromesso. Il cattivo di turno è un critico d’architettura, il viscido e perfido Ellsworth Toohey, ritratto come uno che manda i pezzi dalla vasca da bagno, insidia il titolare sottraendogli i rubricisti di punta e istiga le masse contro Roark. Se solo noi critici avessimo tutto quel potere. Di certo gli architetti non lo hanno.
Per necessità gli architetti devono avvicinarsi al potere, ma la realtà della loro situazione fa sempre sì che di rado lo raggiungano.
La vera natura dell’architettura è l’essenza del patto tra chi detiene davvero il potere e chi fornisce ai potenti gli strumenti per affermarlo, difenderlo e propagandarlo.
Costruire qualcosa di dimensioni audaci e sensazionali equivale a incapsulare il potere. L’esercizio di quel potere, però, è un patto tra il cliente e il progettista. A ciascuno serve l’altro. Tuttavia si tratta di un patto sbilanciato. Il più delle volte a comandare è il cliente. Quando Aldo Rossi ha gettato la spugna rinunciando a disegnare un albergo per la Disney, pare abbia ricordato a Michael Eisner di un precedente tentativo da parte di un architetto italiano di costruire a Parigi. «Non la prendo come un’offesa personale e posso sorvolare su tutte le critiche negative mosse al nostro progetto nell’ultimo incontro», ha scritto a Eisner. «Il cavalier Bernini, invitato a Parigi per il progetto del Louvre, fu tormentato da una schiera di funzionari che non facevano che chiedergli dei cambiamenti. Mi sembra evidente che io non sono il cavalier Bernini, ma lei non è il re di Francia».
Eppure anche l’idea dei clienti onnipotenti e dispotici è un mito. Loro devono affrontare le banche e i finanziatori, le autorità preposte alla pianificazione e gli azionisti.
Un tempo si diceva che l’uomo più importante dell’architettura americana era Philip Johnson. Verrebbe senza dubbio da pensarlo, a giudicare dal modo in cui «Vanity Fair» ne festeggiava i compleanni fotografandolo in mezzo a una corte in continua espansione di architetti più giovani per rendere omaggio al Four Seasons. Tuttavia trovo discutibile il fatto che uno dei motivi per cui è stato tanto difficile realizzare un’architettura degna di nota a New York possa essere imputato a lui.
E uno dei suoi successori nel ruolo di primo curatore dell’architettura e del design del Museum of Modern Art era noto come l’Ayatollah del gusto perché una mostra al museo bastava a far decollare la carriera di un architetto. Sarà forse per questo che quasi nessun architetto vivente ha ottenuto una di quelle retrospettive che, per un po’, costringono il MoMA a interminabili repliche di Mies van der Rohe.
In architettura il potere è soprattutto di chi ha le idee. Quando Paolo Portoghesi ha canonizzato il Postmodernismo con la Biennale di Venezia del 1980 aveva per le mani un’idea straordinariamente potente. Quando Rem Koolhaas ha cominciato la sua carriera scrivendo un libro, piuttosto che costruendo, aveva anche lui il potere di un’idea. Lo stesso vale, in modo assai diverso, per Vittorio Lampugnani, che grazie alle capienti tasche della Novartis ha potuto commissionare a un gruppo straordinariamente coerente di architetti i campus della casa farmaceutica a Basilea e a Shanghai.

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Last modified: 10 Luglio 2015