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Cristina DonatiWritten by: Interviste

Will Alsop: penso l’architettura oltre la costruzione, là dove inizia l’arte

Invitato a Perugia il 20 maggio nell’ambito della iniziativa «L’architettura che cambia», Will Alsop ha tenuto una lectio magistralis dal titolo «Red, green & blue», un’occasione per riflettere sull’architettura di questo maestro nel riscrivere il linguaggio high tech con quella libertà che, in ambito anglosassone, con esiti altrettanto individuali e anticonvenzionali, ricorda James Stirling. La personale rielaborazione tra architettura, arte e tecnologia di un edificio griffato Alsop si deve anche a una concezione costruttiva che consente di scomporre l’edificio nelle sue componenti strutturali, funzionali e artistiche, pensate quasi come layer di un software, cioè autonome e integrate al tempo stesso. L’elemento generatore è la scatola («the box») a cui sottrarre o addizionare volumi, anche come scenografici pod, le capsule autoportanti sospese nello spazio con cui Alsop spesso «firma» i suoi progetti. D’altro canto, se questo è vero per le opere realizzate in Gran Bretagna, i masterplan per le città cinesi di Pechino, Shanghai, Chongquing, Haikou, Langfang e Zhuhai rivelano oggi un’interdisciplinarietà ancora maggiore. D’altronde, la libertà creativa, l’assenza di significati prestabiliti e di teorie è un obiettivo progettuale che Alsop persegue da sempre. Un’architettura che non si limita, quindi, al trasferimento tecnologico da settori industriali evoluti, ma che rincorre quell’ideale di Architecture as a necessary Art che Alsop apprende da Cedric Price durante gli anni del suo privilegiato tirocinio, dopo gli studi all’Architectural Association di Londra.

Nel 2009 si dissocia, con clamore di stampa, da Alsop Smc e inizia una nuova vita professionale con il colosso Rmjm. Quale bilancio può fare oggi, dopo due anni con loro?
Rmjm ha un’identità corporativa con un management aziendale e un network globale che costituisce un’indispensabile infrastruttura per il mio ruolo di responsabile per l’Europa. Da un punto di vista personale, questa collaborazione ha coinciso con il trasferimento dello studio in una sede molto più grande. Questo mi ha permesso di realizzare un centro per le arti che ho chiamato Testbed1, che inauguriamo a ottobre. Così, verso le sei, quando lo studio chiude, apriamo Testbed1 che prende vita con conferenze, manifestazioni, workshop dedicati alla cultura e alle arti. È in programma anche Doodle Bar, un bar pubblico dove gli architetti dello studio potranno ritrovarsi e scambiarsi idee.

Lei indipendentemente da Rmjm ha interventi in corso di realizzazione in Cina che sarebbero impensabili in un contesto europeo e forse anche americano. Quali condizioni culturali o di committenza consentono questa maggiore libertà espressiva del progetto?
La committenza cinese esige una qualità molto alta, che va ben oltre il livello di molta architettura speculativa americana che ricicla formule tipologiche in modo asettico e internazionale. Oggi la Cina ha maturato una volontà di ricerca di una nuova identità che rappresenti la sua idea di modernità. La tradizione non si è mai evoluta in valori che possono costituire un quadro di riferimento prestabilito e, quindi, esiste apertura culturale da parte dei committenti e libertà per i progettisti. La nuova classe dirigente cinese non ha paura di mettersi in gioco, ma è molto attenta agli aspetti commerciali ai tempi di realizzazione.

E dal punto di vista dell’ingegnerizzazione?
L’ingegneria locale è estremamente capace di raggiungere livelli di dettaglio paragonabili a quelli degli studi anglosassoni. Penso che tra cinque o dieci anni anche gli architetti cinesi saranno in grado di progettare in modo competitivo. Ciò non significa che tra dieci anni non si potrà più lavorare in Cina, perché le logiche con cui si sceglie un architetto sono anche legate alla fiducia e al piacere di lavorare insieme.

A Shanghai ha inaugurato a gennaio l’intervento di Gao Yang, con uno scenografico portale a cui sono ancorati tre «pod». Che ruolo riveste questo elemento centrale, già rinominato lo «Shanghai Chandelier», nella composizione generale del progetto?
Volevo mantenere una sequenza lineare di edifici, ma al centro non potevamo scavare fondazioni profonde perché sono previsti i tunnel della metropolitana. Così, ho progettato questo portale che segnala l’ingresso in città e ho voluto che fosse il più luminoso possibile. La sera i pod, dove si trovano bar, ristoranti e un night club, si accendono di Led multicolore e l’insieme diventa molto spettacolare. È una struttura appesa molto complessa che credevo non sarei mai riuscito a realizzare ma ce l’abbiamo fatta! Da un punto di vista progettuale più generale, non procedo con un metodo seriale, ma mi avvicino al progetto con la stessa apertura con cui mi metto a dipingere un quadro. Inizio a disegnare e non ho idea del risultato finale. È l’atto stesso di dipingere che determina il risultato; proprio come con l’architettura dove la soluzione è una scoperta in divenire.

Oggi un grande architetto deve avere accanto una grande engineering. I suoi edifici nascono anche grazie alla collaborazione con studi come Arup, Buro Happold e Adams Kara Taylor. Segui l’ingegnerizzazione del processo o lascia che altri se ne occupino?
In Inghilterra la relazione tra architetti e ingegneri è molto salda; ci sono anche molta amicizia e rispetto reciproco. A me piace sviluppare insieme il progetto senza aspettare di coinvolgere gli ingegneri nella fase conclusiva. Non progettiamo un edificio e poi ci aspettiamo che qualcuno trovi la soluzione per farlo stare in piedi! In Inghilterra, già nel corso degli studi universitari, vengono forniti ai futuri architetti gli strumenti per comprendere le logiche strutturali; così anche se non sai fare i calcoli, sei sempre consapevole della costruibilità di un edificio. Invito spesso tutto il team di progetto, ingegneri compresi, a partecipare a workshop dove esploriamo insieme le prime fasi della progettazione, a volte anche dipingendo insieme grandi quadri.

Si è spesso definito un «outsider», confessando anche un certo disagio con il dibattito internazionale. Cosa non condivide dello scenario architettonico contemporaneo, tutto sommato caratterizzato da un forte pluralismo?
I miei docenti erano gli Archigram e ho fatto tirocinio con Price. Sono cresciuto con l’idea che l’architettura fosse uno strumento d’indagine per l’avanzamento sociale, l’innovazione tecnologica e la trasformazione urbana. In un certo senso se guardi Londra da Waterloo Bridge ti accorgi di quanto sia diversa da dieci anni fa; a Parigi non si sarebbe mai permesso uno stravolgimento di questo genere. Così, gli inglesi sono più favorevoli alle logiche evolutive e meno conservatori di quanto pensano di essere. Il pluralismo è una grande conquista del millennio, anche se oggi assistiamo a uno strano fenomeno: se da un lato possiamo dire di aver raggiunto quella maturità culturale che ci ha liberato da movimenti totalitari e ideologici, dall’altro sono gli stessi architetti a volersi imporre delle regole. In questo senso certa architettura minimalista o la stessa high tech, quando ridotta a codici linguistici preconfezionati, possono avere un’influenza negativa quanto il conservatorismo del principe Carlo. Questa riduzione dell’architettura alla ricerca di uno stile mi trova del tutto dissenziente. Adottare le regole di un linguaggio prestabilito toglie la gioia dell’invenzione che a me piace ricercare insieme ai miei committenti. Per quanto si possa pensare che i miei edifici siano riconoscibili, sono però anche molto diversi l’uno dall’altro.

Renzo Piano definisce l’architettura «arte corsara», cioè una battaglia multidisciplinare. Una definizione che si addice anche alla sua visione del progetto. Dopo trent’anni dedicati all’architettura, quale pensa sia la tua più grande conquista?
Due sono le conquiste di cui posso dire di sentirmi orgoglioso. La prima è sentire la soddisfazione delle persone che abitano i miei edifici. La seconda è aver avuto come collaboratori architetti di talento che ora hanno la loro vita professionale autonoma, ma a cui penso di aver comunicato una scuola di pensiero.

Autore

  • Cristina Donati

    Prima collaboratrice poi redattrice della testata online fin dagli esordi nel 2014. Prematuramente scomparsa nel 2021. Studia architettura a Firenze dove consegue un Dottorato di ricerca in storia dell’architettura. Dopo la laurea si trasferisce a Oxford dove collabora con studi professionali, si occupa di editoria e cura mostre per Istituti di cultura a Londra. Ha svolto attività didattica per la Kent State University (USA) con il corso di Theories of Architetcure. Scrive per numerose riviste internazionali e svolge attività di ricerca sull’architettura contemporanea e i suoi protagonisti. Dirige la collana editoriale «Single» sul progetto contemporaneo per la Casa Editrice Altralinea. E' autrice di saggi e monografie tra cui: «Michael Hopkins» (Skira, 2006); «L’innovazione tecnologica dalla ricerca alla realizzazione» (Electa, 2008); «RSH+P, Compact City» (Electa, 2014); «Holistic Bank Design» (Altralinea, 2015).

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Last modified: 10 Luglio 2015