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There’s no place like home

La casa, specchio di chi la abita, distillato del suo sistema di valori, ma anche tramite di aspirazioni che travalicano le semplici necessità contingenti, è al centro del breve scritto che John Soane concepì nell’estate del 1812 per raccontare la storia della propria abitazione londinese di Lincoln’s Inn Fields. Una pluralità di significati che lo stesso ricco vocabolario della lingua inglese coglie appieno, riservando all’idea dell’abitare due nomi ben distinti: home e house. Il ventaglio di generi, a cavallo tra narrativa e saggistica, sul tema della casa è ampio e variegato: al saggio storico erudito si accompagna il catalogo (come quello celebre di Horace Walpole sul suo castello neogotico di Strawberry Hill), o il manuale di progettazione travestito da romanzo (Histoire d’une maison di Eugène Viollet-le-Duc), e alle storie di vita privata o di cultura materiale si alterna il racconto, dove l’abitazione gioca il ruolo di protagonista o di semplice scena degli eventi. Crude Hints towards and History of my House, stampato in inglese nel 1999 e ora in italiano per Sellerio, appartiene all’ultima di queste famiglie e, come scrive Caroline Patey che ne ha curato l’edizione, rappresenta qualcosa di più di una semplice autobiografia del suo autore. È una «biografia al quadrato», in grado di rivelare pieghe e interstizi opachi al tradizionale racconto retrospettivo di una vita. A renderlo tale è l’artificio retorico con cui l’autore della Banca d’Inghilterra, nei panni di un antiquario, immagina che la propria casa sia una rovina di un edificio antico appena riscoperta. Uno scritto in cui si condensano aspirazioni professionali ed esigenze di autocelebrazione, ma anche il segno di quanto il gusto per le rovine e il collezionismo da dilettanti siano parte di un atteggiamento diffuso presso un ceto professionale emergente, desideroso di conquistare una supremazia intellettuale nella capitale del Regno a cavallo tra xviii e xix secolo.
Tutt’altro il registro (e l’immaginario interlocutore) della collana che l’editore britannico Shire ha da poco dedicato alla storia della casa inglese nelle varie epoche. In un linguaggio non accademico, The Victorian Home di Kathryn Ferry, storica free lance, lega le trasformazioni subite dallo spazio domestico inglese allo sviluppo della produzione manifatturiera nell’Inghilterra del xix secolo, offrendo letture illuminanti di fenomeni talmente sotto gli occhi di tutti da apparire persino scontati: ad esempio, mettendo in relazione l’immagine più consumata dell’interno vittoriano come uno spazio stracolmo di cianfrusaglie e inutili suppellettili con le inaspettate e moltiplicate possibilità di consumo offerte dall’incalzante progresso dell’industria manifatturiera alla metà del secolo. Il racconto tracciato da Ferry mostra il ruolo preponderante giocato dalle donne, da sempre fautrici delle scelte riguardanti l’arredamento e la decorazione della casa, oltre che esclusive autrici di un nuovo genere letterario, quello dei manuali di economia domestica e prontuari di household taste, che vede la luce proprio con la rivoluzione industriale e la nascita della classe media. Così, nella versione offerta da Ferry, la casa vittoriana appare, molto più di oggi, la traduzione in termini spaziali dei diversi ruoli di genere: basti pensare a interni domestici codificati come i parlour e le drawing rooms. Una storia in cui le esigenze di tradurre in segni tangibili un’emancipazione sociale di nuova o recente acquisizione trovano risposta nelle strategie progettuali messe in campo da architetti e costruttori, determinando la fortuna commerciale di precise tipologie edilizie: l’aspirazione diffusa nella classe media inglese a vivere in una casa singola si traduce così in un paesaggio suburbano costellato di abitazioni semi detached disegnate in modo da apparire, a un osservatore distratto, delle ville indipendenti. Il libro fa propria, in un’agile veste divulgativa riccamente illustrata, una consolidata tradizione storiografica che conta ormai un nutrito repertorio di lavori, molti dei quali promossi dal Centre for the Study of the Domestic Interior, patrocinato dal Royal College of Art e dal Victoria and Albert Museum con lo scopo di diffondere, attraverso lo spoglio di una pluralità di fonti testuali e visuali, uno sguardo alternativo sulla storia della cultura occidentale dal 1400 a oggi.
La cosiddetta città diffusa, luogo privilegiato di quella dispersione insediativa che in alcune regioni italiane ha visto proliferare, spesso all’interno di un pericoloso vuoto normativo, il modello abitativo della villetta, è invece l’oggetto di un volume italiano. Una sorta di universo parallelo «incredibilmente invisibile per lungo tempo agli occhi degli architetti», che Davide Rolfo riporta al centro dell’attenzione, facendone il punto di partenza per una riflessione progettuale, oggi urgente, sul tema dell’abitazione singola. Nella sua ricca rassegna d’ideologie, simboli e immagini inscritti nell’universo domestico, l’autore si muove con disinvoltura sulle tracce di scienziati sociali e antropologi culturali, da Pierre Bourdieu ad Antonio Tosi, da Marc Augé a Giandomenico Amendola, spingendosi a esaminare fonti tanto insondate quanto eloquenti, come le pubblicità immobiliari. L’insegnamento tratto dall’osservazione di esperienze straniere e italiane considerate virtuose, come la Essex Design Guide, il Regolamento edilizio di Seregno (in Brianza), o i francesi Conseils d’architecture, d’urbanisme et de l’environnement, consente infine di prefigurare possibili interventi volti a indirizzare le scelte di una committenza troppo spesso inconsapevole delle proprie più intime esigenze, e sprovvista di un’adeguata sensibilità visiva.

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Last modified: 10 Luglio 2015