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Filippo De PieriWritten by: Inchieste

La Spina che non c’è

Si percorre la Spina centrale con lo stesso vago senso d’irrealtà con cui, nella vita di tutti i giorni, ci si può trovare a percorrere il Corridoio 5. Così come, quando viaggiate in alta velocità da Torino a Milano, non necessariamente avete la percezione di trovarvi sul grande asse di trasporto europeo che dovrebbe unire Lisbona e Kiev, così i circa 2 km della Spina finora realizzati non fanno necessariamente venire in mente il grande boulevard urbano progettato a fine anni ottanta. La Spina centrale è da tempo nell’immaginario di Torino, ma solo in parte la si può trovare sul terreno.
Quando lo studio di Vittorio Gregotti e Augusto Cagnardi disegnò il Prg approvato nel 1995, la Spina centrale rappresentava il principale elemento organizzatore del progetto e una risposta forte alla deindustrializzazione in corso. Quel piano prendeva atto di due elementi: l’avvio del cantiere del passante ferroviario, con la conseguente copertura dei binari, e il fatto che alcune delle principali aree dismesse si trovassero, per ragioni storiche, proprio lungo l’asse della ferrovia. Nasceva di qui l’ipotesi di proporre un boulevard urbano come elemento di collegamento tra le aree strategiche di trasformazione. Quest’operazione di disegno a grande scala era un modo per tenere insieme una città che sembrava perdere coesione e anche un modo per costruire immagini di centralità intorno a luoghi da sempre considerati periferici.
Quanto di quella visione si è oggi realizzato? I progetti delle quattro aree delle Spine si sono col tempo adattati al mutare del contesto, talvolta con esiti deludenti, talvolta con qualche sfumatura e complessità in più. Del resto, la trasformazione urbana ha tempi lunghi e non è facile oggi dire quale potrà essere l’esito delle operazioni più ambiziose, per esempio Spina 2, con la sua scommessa di riconvertire a una vocazione prevalentemente culturale e di ricerca una parte di città segnata da grandi aree produttive e a servizi.
Le Spine, comunque, sono lì: sono state costruite in tutto o in parte, hanno ridefinito i propri confini, negoziato rapporti con abitanti e luoghi, acquistato una centralità per molti versi autonoma rispetto al disegno iniziale. Questo negli stessi anni in cui la forte competizione tra luoghi dell’area metropolitana per attrarre risorse materiali e simboliche (si pensi solo a Lingotto, Mirafiori, Venaria) ha contribuito a rendere meno persuasiva l’idea che la grande trasformazione della Torino post-industriale potesse trovare un qualche tipo di baricentro.
L’aspetto forse più curioso di questa storia è che mentre il dibattito torinese ha spesso osservato con passione il processo di realizzazione delle Spine, la Spina al singolare è stata invece discussa molto poco, come se quello che era stato inizialmente proposto come il cuore del progetto fosse diventato qualcosa di superfluo o di scontato. Un sintomo, forse, di una persistente difficoltà ad assumere lo spazio pubblico come il vero cuore di un possibile cambiamento.
In anni in cui altre città hanno fatto del ridisegno d’infrastrutture lineari il punto di condensazione di strategie urbane innovative (i boulevard des Maréchaux a Parigi, la High Line a New York) Torino è sembrata accontentarsi, sulla Spina, di un rassicurante tradizionalismo basato su una rilettura della morfologia del viale ottocentesco e ancora molto legato, per certi versi, alla cultura dell’automobile e del trasporto privato.
Eppure la logica di progettazione basata sul disegno di un asse infrastrutturale o paesaggistico e sull’associazione a questo di occasioni di sviluppo immobiliare è stata riproposta più volte negli ultimi anni, in modi e a scale diverse: in particolare nei progetti per corso Marche e nella Variante 200 per l’area nord della città. Il modello della Spina ha una sua permanenza, a Torino, e questo chiama forse in causa la lunga durata, nella cultura di amministratori e operatori, di un modo di pensare il ruolo del progetto e il suo rapporto con la storia della città che proprio il Prg aveva contribuito a portare in primo piano. O forse si può ipotizzare che la fortuna dell’immagine sia legata anche, se non soprattutto, ad altre ragioni: perché si è dimostrata uno strumento di qualche efficacia nel mobilitare gli immaginari legati al mercato immobiliare e non è stata priva di utilità nell’orientare i dibattiti e permettere di costruire un consenso intorno alle trasformazioni.

Autore

  • Filippo De Pieri

    Insegna Storia dell’architettura al Politecnico di Torino. Le sue ricerche si concentrano sulla storia delle città di Otto e Novecento, con particolare attenzione ai temi della storia dell’abitare e agli intrecci tra storia pubblica, memoria e trasformazioni dello spazio. Il suo ultimo libro è "Tra simili. Storie incrociate dei quartieri italiani del secondo dopoguerra" (Quodlibet 2022)

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Last modified: 10 Luglio 2015