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Danilo Udovicki-SelbWritten by: Progetti

A Washington, un museo fatto di metaforiche scale (più che di sale espositive)

Washington. Sono passati oltre 350 anni da quando, in un piccolo insediamento all’epoca chiamato New Amsterdam, ebbe inizio la storia degli ebrei in America. E ne sono passati quasi 35 dall’apertura, nel 1976, di un piccolo museo ebraico (40 manufatti) in una sede condivisa con una delle più antiche sinagoghe sefardite del Paese. Con i suoi 10.000 mq (di cui 2.500 per le mostre temporanee) e un costo di 150.000 dollari, il nuovo museo è l’unico appositamente dedicato a conservare i contributi ebraici alla saga americana. Il vero rapporto degli ebrei con l’«America» nacque negli anni ottanta dell’Ottocento, decennio in cui ebbe inizio la massiccia immigrazione nel Nuovo Mondo, e costituisce il nucleo del nuovo National Museum of American Jewish History progettato da James Polshek e dallo studio Ennead Architects.
L’ubicazione stessa del museo, di fronte alla Independence Hall, l’edificio dove fu firmata la Dichiarazione d’indipendenza, ha suscitato non poche controversie. Tra i contrari anche lo stesso Polshek, che ha tentato invano di convincere la committenza del museo (vari filantropi e istituzioni come la Steven Spielberg Righteous Persons Foundation, insieme allo Smithsonian Museum) a scegliere un altro luogo, più discreto, mettendola in guardia dalle implicazioni di una simile scelta, ovvero che gli ebrei parteciparono alla fondazione degli Stati Uniti, la qual cosa non è vera. Da tale controversia è scaturita la principale strategia architettonica di Polshek: «Il sito s’impone al punto di richiedere un’estrema dignità e integrità per accogliere tutti i popoli». Perciò Polshek ha scelto una narrazione che potesse riflettere l’esperienza di tutti gli immigranti, invece di celebrare la supposta esclusività di qualsiasi etnia costitutiva. 
L’edificio è formato da un cubo massiccio rivestito in terracotta sagomata che rievoca la forza e la resistenza degli immigrati. Il materiale rimanda anche a Philadelphia, la cosiddetta «città di mattoni». Il cubo, parzialmente avvolto da un secondo involucro dal palpitante e traslucido sistema di pannelli vetrati, intende evocare la fragile trasparenza della democrazia, presunta essenza della società americana. Tale espediente si è scontrato con l’opposizione di un membro della commissione che voleva vetro trasparente «à la Mies» invece dei pannelli ornati da una griglia di linee bianche disegnate a mano da ogni membro dello studio («Sono troppo vecchio per usare i computer», commenta Polshek), a ricordarci che la democrazia (come pure la sopravvivenza degli ebrei) è il fragile prodotto di un permanente sforzo individuale e collettivo che unisce i cittadini in una rete sociale. Alcuni pannelli di vetro e terracotta sono stati rimossi dal rivestimento della struttura, generando un «effetto eccezione» su cui ha insistito l’architetto malgrado le opposizioni: «Una società democratica ha le sue eccezioni». Una di queste è un grande riquadro che funge da poster del museo e proclama la propria identità con le parole «Only in America»: ritenendole inappropriate, Polshek tenterà di farle cambiare. La dialettica tra i due contrastanti involucri è efficace seppur incompleta. L’anello di congiunzione si trova nell’enorme atrio centrale alto trenta metri definito dai vuoti dei due volumi interdipendenti, che sembrano tenuti insieme in modo strabiliante da un imponente intrico di scale dai finissimi dettagli. L’effetto ricorda inevitabilmente la lotta di chi tentò di superare l’abisso che separava il Vecchio Mondo dal Nuovo, o altrimenti la millenaria ricerca ebraica di una patria. Orientate in direzioni diverse e sostenute da travi di sezioni ineguali, le scale potenziano insidiosamente il senso d’incertezza e drammaticità. Il loro dinamismo è pieno di metafore conscie e inconscie: il tracciato dei proiettili, i raggi d’azione dei fari, lo stridio degli aerei da guerra. Una di queste è sfuggita all’architetto, che però l’ha prontamente accettata: con il loro aspetto mobile, fissate alla pavimentazione quasi in modo «lasco», evocano in modo irresistibile le scale dei transatlantici da cui gli emigrati sbarcavano nel loro nuovo paese. L’ordine dell’esposizione lo conferma: trasportati all’ultimo piano da un ascensore, i visitatori scoprono il racconto del museo scendendo le scale. 
Se le scale e l’atrio sono l’evento architettonico centrale del museo, le sale espositive sono celate dietro grandi pannelli che suddividono la collezione per temi e cronologie. Disegnati da Patrick Gallagher, sono pieni zeppi di cimeli ebraici. Tuttavia gli ambienti imbricati, densi e oscuri che li contengono, separati dall’enorme atrio bianco inondato di luce, sanno più di rappresentazioni dei ghetti che di spazi di libertà conquistata.

Autore

  • Danilo Udovicki-Selb

    Laureato in Architettura e pianificazione all'Università di Belgrado, ha conseguito un master in Filosofia al Boston College e un dottorato in Storia, teoria e critica dell'architettura Massachusetts Institute of Technology. È docente associato presso la Austin School of Architecture dell'Università del Texas.Ha pubblicato molti contributi sugli anni 30 in Francia e Unione sovietica, in particolare sull'avanguardia architettonica russa, su Charlotte Perriand e Le Corbusier. La sua più recente pubblicazione ha riguardato la cura del volume “NARKOMIN: Moisej Ginzburg and Ignatij Milinis” (Ernst Wasmuth Verlag, Berlino). Attualmente, sta scrivendo un libro sulle avanguardie sovietiche nell'epoca staliniana. È corrispondente del Giornale dell’Architettura dal 2003.

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Last modified: 10 Luglio 2015