Le discussioni che hanno accompagnato la presentazione pubblica delle inchieste, dedicate da questo Giornale nei precedenti due numeri a Milano e Firenze, sono state occasione di riflessione circa lo stato della «questione urbana», tra molte analogie e poche (ma sostanziali) differenze. Tra le seconde, soprattutto la «febbre edilizia» del capoluogo lombardo, contrapposta ai veti incrociati e agli scontri interni («tra guelfi bianchi e guelfi neri») che paralizzano il capoluogo toscano.Due le analogie particolarmente significative. Diversi interventi hanno sottolineato come lidea di città (e di spazio pubblico) non possa essere affidata solo alla vision, alla mission: anglicismi che vanno tanto di moda ma che spesso nascondono povertà di contenuti esplicitati attraverso slogan («la città inclusiva», «i volumi zero», ecc.). I vari piani dovrebbero essere anche in grado di disegnare lo spazio, saper dare forma ai vuoti, alle infrastrutture. Insomma, la frontiera della cosiddetta urbanistica di recente generazione, fatta di contrattazione pubblico-privata e di strumenti che sanciscono negozialità sugli intenti e sulle azioni, è apparsa di colpo superata da un rappel à lordre che trova la sua legittimazione nella morfologia urbana come matrice identitaria di cittadinanza, passando per la riproposizione zeviana del vuoto come «spazio costruito in negativo». Listanza, considerata attualmente, non pare certo di retroguardia ma anzi suona come rivoluzionaria. Soprattutto se rapportata alle proposte parlamentari per la riforma della legge urbanistica che invece vanno verso la concertazione in cui il soggetto pubblico si limita a dare un «quadro di coerenza» ai vari appetiti dei privati che sono i reali motori delle trasformazioni.
La seconda analogia emerge con ancora maggiore forza (ed è ribadita in queste pagine dagli autori che illustrano il Piano strategico di Roma). Riguarda la critica alla dimensione dei piani urbanistici, legati ai confini amministrativi municipali. Un vincolo privo di senso soprattutto laddove gli agglomerati urbani funzionano e si leggono in termini di realtà metropolitane; con la conseguenza che le previsioni di governo del territorio possono presentare forti discrasie in contesti caratterizzati dallassenza di soluzione di continuità. Qui, non è solo un problema di riforma della legislazione in materia urbanistica, ma anche di volontà politica a un livello più alto: listituzione delle «città metropolitane» a parole sembra invocata da tutti, ma nei fatti ognuno preferisce continuare a coltivare il proprio orticello, piccolo o grande che sia.
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