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Sergio PaceWritten by: Progetti

Torino olimpica +5, di Sergio Pace

Riuscì persino a nevicare a metà di quel febbraio 2006, quando Torino si trasformò in Winter Olympic Games Host City: anche il tempo aveva deciso di contribuire al successo di un evento fino a pochi anni prima nemmeno immaginabile. La ville industrielle in dismissione si ritrovava al centro d’una scena mediatica imprevista, lontano dai luoghi comuni dell’understatement subalpino. Nei giorni precedenti l’inaugurazione, una strana frenesia aveva guidato la chiusura d’innumerevoli cantieri mentre le strade si addobbavano a festa d’un rosso sgargiante: da sotto ai ponteggi emergeva una città di cui gli abitanti e gli ospiti parevano (ri)appropriarsi con meraviglia, quasi non si aspettassero di trovarla così bella.
All’inaugurazione dei Giochi tutto sembrò aver funzionato alla perfezione, in città così come in Val Susa e Val Chisone: la macchina organizzativa non aveva avuto ritardi significativi, i siti olimpici riuscirono a ospitare senza problemi gare, atleti, giornalisti, pubblico. Nuovi edifici firmati da architetti famosi, impianti sportivi di qualità parevano destinati a ridisegnare il futuro di Torino e delle sue valli quale polo internazionale di sport invernali. D’altronde in città la sinergia tra le nuove opere olimpiche e i grands travaux programmati da tempo (la costruzione della prima linea di metropolitana o la copertura del piano del ferro con la realizzazione della cosiddetta spina centrale) sembrò dare uno slancio nuovo, invocato almeno dalla grande crisi degli anni settanta.
Que reste-t-il de ces beaux jours? A cinque anni di distanza è possibile fare un bilancio. Anzi forse sarebbe doveroso, soprattutto da parte di quelle amministrazioni pubbliche che hanno investito notevoli capitali, economici e sociali, nell’avventura: anche perché, nonostante le feroci critiche mosse dalla cultura antagonista, non tutto è andato perduto.
A quel che sarebbe successo all’indomani dei Giochi s’è cominciato a pensare con relativo tempismo. Fin dal 20 marzo 2006, su iniziativa di Comune, Provincia, Regione e Coni, è stata costituita la Fondazione «XX Marzo» o Torino Olympic Park (Top), destinata a «gestire e promuovere gli impianti lasciati in eredità dai Giochi»: oltre ai luoghi delle gare nelle valli alpine, a Torino si occupa di Palavela, Palaolimpico e Villaggio degli atleti. A tal fine la Fondazione ha generato una società, la Parcolimpico, che a sua volta ha assicurato per un trentennio la gestione degli impianti alla Set Up, diramazione italiana dell’americana Live Nation, corporation specializzata in grandi eventi. Dal pubblico al privato in poche mosse, con la motivazione di ripianare un consistente (e contestatissimo) deficit di bilancio entro il 2011.
Nonostante le difficoltà, quest’assetto ha garantito la dignitosa sopravvivenza di molti impianti. A prescindere dallo stadio, utilizzato per le partite di Torino e Juventus, forse il caso di maggior successo è il Palavela di Gae Aulenti e Arnaldo De Bernardi. Benché abbia compromesso la leggibilità d’uno degli edifici più affascinanti di Italia ’61 (il Palazzo delle mostre progettato da Annibale e Giorgio Rigotti con Franco Levi e Nicolas Esquillan) l’edificio ospita non soltanto gare sportive di livello mondiale ma anche una patinoire al coperto che attira qualcosa come 30.000 persone all’anno. Un discorso simile può essere fatto anche per il Palaolimpico di Arata Isozaki e Pier Paolo Maggiora dove si svolgono i maggiori eventi al coperto della città: dal concerto di Bruce Springsteen alla presentazione della nuova Fiat 500. Il Palazzo del ghiaccio Tazzoli dello Studio De Ferrari, dal canto suo, è sede di gara del Real Torino Hockey Club e aspira a diventare un altro polo del ghiaccio cittadino. Persino l’Oval di Zoppini Associati e Studio Hok si sta pazientemente integrando al centro fieristico del Lingotto: l’ultima edizione di Artissima, pur con qualche nodo irrisolto, ha testimoniato che un futuro è ancora possibile per quest’immenso salone senza qualità.
Anche per i sei Villaggi media la situazione pare piuttosto serena: di là dalle qualità architettoniche dei singoli edifici, piuttosto altalenanti, due sono divenuti residenza universitaria dell’Edisu, uno è in uso al ministero della Difesa, un altro all’International Labour Organization, due sono divenuti residenze. Per fortuna la città cresce anche indipendentemente dagli eventi olimpici e riesce così ad assorbire nella sua regola anche le eccezioni.
Pertanto, stanno tutti bene? Questo no. Accanto a questi episodi di relativo buongoverno occorre tener presente situazioni assai critiche. Su tutte, lo sfacelo che, in modo paradossale, ha colpito il luogo più emblematico di Torino 2006. Il Villaggio olimpico, coloratissimo insieme di case a ridotto consumo energetico costruito sui progetti di un team di studi d’architettura coordinati da Benedetto Camerana, mostra i segni inequivocabili di un’incuria che ha compromesso gli spazi comuni e rende difficoltoso abitare le case, occupate peraltro da inquilini eterogenei: la stessa Fondazione Top, l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente (Arpa), la foresteria della Città di Torino insieme a qualche alloggio. Ancor più grave è l’abbandono degli ex mercati generali di Umberto Cuzzi, capolavoro della costruzione in cemento armato degli anni trenta. Dopo un tentativo di trasformazione in centro commerciale nonché vari progetti campati in aria (museo, campus universitario, science center) l’ultima proposta, cui parrebbe interessato un colosso come Virgin, riguarda la trasformazione di questi spazi vuoti in un colossale centro dedicato al benessere. Nell’attesa, rimane solo il degrado delle strutture vecchie e nuove.
Terminati i Giochi, su alcuni siti olimpici le gare sembrano ancora aperte. Gli enti pubblici si sono trovati ad amministrare un patrimonio dal valore eccezionale ma la cui gestione è complicata e costosa; i privati non intendono contribuire a ripianare un disavanzo enorme o, talvolta, paiono soltanto in attesa di vedere il momento in cui s’aprirà la stagione dei saldi. È giunto il momento di ridiscutere con serenità e trasparenza i destini della città postolimpica: perché continui ad avere una minima credibilità lo slogan del 2006, secondo cui passion lives here.

Autore

  • Sergio Pace

    Professore ordinario di Storia dell'architettura presso il Politecnico di Torino, dove è anche referente del Rettore per Biblioteche e archivi storici. Ha lavorato e pubblicato principalmente sull'architettura europea e la città del XIX secolo, così come sull'architettura industriale e la ricostruzione dopo la Seconda guerra mondiale, con particolare attenzione all’opera di Carlo Mollino. Negli ultimi anni si è dedicato alle culture architettoniche dell’eclettismo europeo e alla città di Nizza, tra la tarda età moderna e la prima età contemporanea

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Last modified: 10 Luglio 2015