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Danilo Udovicki-SelbWritten by: Città e Territorio

Boston Museum of Fine Arts: insignificante ma costoso, sembra un ospedale

Boston (Massachusetts). Disegnata dall’architetto Spencer de Grey dello studio londinese Foster & Partners (con local partners CBT/Childs Bertman Tseckares, Buro Happold e Weidlinger Associates per le strutture e Gustafson Guthrie Nichol per il verde), per 500 milioni di dollari, la nuova ala del Boston Museum of Fine Arts (Mfa), con i suoi 12.000 mq e le 49 gallerie di opere arte del diciottesimo e diciannovesimo secolo, soprattutto del New England, è la più recente struttura dell’ultimo decennio che entra a far parte del ricco patrimonio museale della greater Boston. Il progetto è iniziato nel 1999 ed è stato inaugurato il 22 novembre. Insieme a quella di Ieoh Ming Pei dall’uguale superficie, aggiunta nel 1981 al museo neoclassico del 1909 di Guy Lowell, l’ala «The Art of the Americas» riequilibra la pianta e ne chiarisce il layout.
C’è una strana conformità tra il Fine Arts Museum di Forth Worth progettato da Tadao Ando, di cui ci siamo occupati circa otto anni fa, e questa ultima aggiunta. Se il primo rievocava una casa farmaceutica, il secondo, che ricorda i reparti a vetri di un ospedale, si fonde tra le varie istituzioni mediche della zona. Come mai, ci si chiede, c’è una simile carenza d’ispirazione nell’opera di un’archistar distintasi per lavori eccellenti a partire dalla cupola di vetro del Reichstag fino alla splendida galleria in miniatura di Bowery Street a Manhattan (accanto al New Museum firmato Sanaa) che ha aperto appena un mese fa? Viene da pensare che le «opere d’arte» ospitate dall’aggiunta di Foster al Mfa (per buona parte quel kitsch inesorabilmente accademico tanto amato dagli industriali parvenu e dai padroni di schiavi delle Americhe) non abbiano ispirato altre soluzioni architettoniche. (I curatori, ad esempio, hanno fatto di tutto per convincere i visitatori che una brocca di ceramica «made in Boston» a forma di testa di Toussaint Louverture, in versione caricaturale, è un’opera d’arte che «di certo onora» il liberatore di Haiti, facendoci chiedere: e una brocca a forma di George Washington?). Se non altro la mancanza d’identità del museo ha realizzato appieno il «museo ideale» che si nasconde completamente dietro le opere che esibisce.
Il principale tratto architettonico, che riecheggia gli esterni del modernismo aziendale americano, è un perentorio cubo di vetro alto venti metri incorniciato da una vegetazione rigogliosa, purtroppo di giorno invisibile per i riflessi di un’illuminazione inadeguata. Il volume di vetro esibisce su tre livelli un vistoso sistema di scale «flottanti» proiettato nello spazio a ricordare il brutalismo britannico. L’effetto levitante, però, si perde parzialmente dalla maggior parte delle angolazioni perché le scale sono troppo vicine a un muro laterale. Ergendosi dal sobrio rivestimento in granito del museo, il cubo potrebbe ospitare una nutrita collezione, ma a quanto pare funge solo da ristorante e da foyer della nuova ala. Oltre il foyer, tre piani dal soffitto basso sono pieni zeppi di mediocre arte accademica alla maniera dei Salon parigini di Beaux Arts dell’Ottocento. Nel seminterrato, sistemato tra due sale di opere del Settecento, uno spazio è destinato a una mostra simbolica di manufatti Maya e Inca e a un’imbarazzante collezione di «arte nativa americana» del Novecento, souvenir per turisti che ricordano con dolore la sistematica distruzione di questa cultura. Per fortuna di tanto in tanto il visitatore ha la possibilità di sfuggire a quella sensazione claustrofobica grazie alle luminose gallerie di vetro, strette ma alte, che cingono la facciata del museo offrendo una magnifica vista sui giardini della città.
Immaginato dal direttore britannico Malcolm Rogers, e realizzato da uno studio diretto da un lord inglese con vetro di produzione tedesca, carte da parati europee, teche italiane, pietra calcarea francese e granito finlandese, il risultato potrebbe essere il perfetto esempio di costosa insignificanza architettonica «globalizzata».

Autore

  • Danilo Udovicki-Selb

    Laureato in Architettura e pianificazione all'Università di Belgrado, ha conseguito un master in Filosofia al Boston College e un dottorato in Storia, teoria e critica dell'architettura Massachusetts Institute of Technology. È docente associato presso la Austin School of Architecture dell'Università del Texas.Ha pubblicato molti contributi sugli anni 30 in Francia e Unione sovietica, in particolare sull'avanguardia architettonica russa, su Charlotte Perriand e Le Corbusier. La sua più recente pubblicazione ha riguardato la cura del volume “NARKOMIN: Moisej Ginzburg and Ignatij Milinis” (Ernst Wasmuth Verlag, Berlino). Attualmente, sta scrivendo un libro sulle avanguardie sovietiche nell'epoca staliniana. È corrispondente del Giornale dell’Architettura dal 2003.

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Last modified: 10 Luglio 2015