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Written by: Inchieste

L’opinione: Il governo della città è davvero debole?

La densa costellazione di cantieri che investe Milano rende esplicito il mutare del profilo edilizio della città. Il cambiamento investe aree ex industriali della periferia storica, edifici terziari degli anni cinquanta e sessanta, tessuti densi del centro e aree della cintura periurbana. Citylife, Portello, Porta Nuova, Santa Giulia sono gli episodi più noti, al centro di un’alta visibilità che non corrisponde esattamente a una buona reputazione. La ricostruzione di questo panorama in movimento è oggetto di numerosi studi. Uno recente è a cura di Massimo Bricocoli e Paola Savoldi (Milano downtown, 2010). A partire dalle ricerche lì restituite è possibile formulare qualche domanda.
Si è soliti dire che il governo delle trasformazioni è debole, che lascia la partita al mercato. Richiamando, per chi lo ricorda, il testo di Carlo Donolo e Franco Fichera (Il governo debole, 1981). Ma il governo debole è davvero tale? Non si possono sottovalutare, scrive Ota de Leonardis nel testo citato, i nuovi dispositivi e poteri che si esprimono nel governo debole. C’è un mutamento che merita di essere osservato. Una metamorfosi data dal riprodursi di alleanze politico affaristiche (la forma perversa della tanto celebrata partnership pubblico-privato), dallo spostamento delle sedi decisionali fuori dal Consiglio comunale, dalla convergenze sulla finanziarizzazione delle operazioni. Non si va a casaccio, ma seguendo il principio del corto termine, della velocità e della mobilità dettati dal capitale finanziario.
Questo governo debole, che tanto debole non è, fa a meno di un’intenzionalità esplicita? Anche in questo caso, è opinione comune che Milano manchi di un progetto politico complessivo e di una élite in grado di esprimerlo e tenerlo, come mostra, a suo modo, la vicenda quasi surreale dell’Expo. C’è tuttavia un progetto implicito, riconoscibile in una dinamica di valorizzazione e ricentralizzazione orientata a produrre immagini attrattive, luoghi notevoli, densificazione, messa in valore del suolo, incremento di valori immobiliari. Fino a che punto questa dinamica è intenzionata? Come funziona? Un aspetto parziale, ma interessante, è legato al fatto che a Milano questa dinamica fa a meno di forme di agenzia o strutture organizzative che seguono le operazioni garantendo qualità (qualsiasi cosa ciò voglia dire) e rendendo chiaramente imputabile la responsabilità su un tempo lungo. Qui l’amministrazione è presente all’inizio, cerca di attrarre investitori, mostra una scarsa capacità di selezionarli, poi è come se cedesse la mano. Ma chi presiede la produzione di qualità durante il processo?
Infine, come funziona il disegno urbano? Che tipo di logiche sono quelle che scavano «pezzi di città»? I nuovi quartieri che ridisegnano il profilo della città funzionano ciascuno per proprio conto. Sono sottratti alla città. Ognuno per sé, in una logica introversa e di fondazione. Si guarda dentro e si agisce come se ogni luogo potesse accogliere qualsiasi cosa e il suolo fosse un grande spazio malleabile, privo di resistenze. Si vuole costruire una città nuova e si usa l’idea funzionalista del quartiere. Si pensa alle connessioni con il resto del mondo e si trascurano quelle dentro la città. Ingenuità (o schizofrenia) del disegno urbano si leggono nella retorica della patrimonializzazione del paesaggio che si accompagna alla costruzione di uno spazio liscio, indifferente.
Le operazioni di trasformazione urbana dicono ben di più del mutare dello skyline di Milano: dicono dell’azione pubblica, delle sue tecniche, delle forme di convivenza, prossimità e conflitto. Dicono della necessità di reinventare le domande centrali della politica urbana. La domanda tradizionale, «quali sono le occasioni di ridisegno?» (che da sempre ha scambiato occasioni per condizioni), potrebbe proficuamente lasciare posto ad altre. Quanto mercato c’è nelle aree in trasformazione? Come si danno separazione, convivenza, condivisione, presa di distanza? Come incide la crescita delle disuguaglianze? È sempre necessario spostare temi di welfare su registri di sicurezza? Quale urbanità si cerca? Domande che richiedono di ripensare la questione urbana nella sua interezza, di cambiare prospettiva e di uscire dai luoghi comuni semplificati di tanta cultura progettuale. Ma anche di quella degli abitanti che inseguono un’urbanità priva di problemi e densità sociale (il caffé senza caffeina di ?Zi?zek) e di quella amministrativa alla rincorsa della finanziarizzazione ovunque e comunque. Sarebbe un disastro se si pensasse che qualche aggiustamento possa aiutare forme dell’azione politica deficitarie. Confidare nelle virtù della partecipazione (come si è fatto insistentemente in una stagione ormai alle spalle) è una resa. Confidare nella virtù dell’aggiustarsi delle cose, è espressione di un diffuso cinismo.

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Last modified: 13 Luglio 2015