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Luca GibelloWritten by: Progetti

Elegia per un cimitero nel cuore della Carnia, di Ceschia e Mentil Architetti Associati

I colori sono quelli caldi e cangianti dell’autunno, ma l’aria del crepuscolo è pungente. Fin dai 1500 metri le pendici dei monti sono ammantate di una precoce eppur generosa coltre di neve. Con sorpresa, già s’odono fragori di piccole valanghe che precipitano dai diedri dell’imponente parete sud del Pizzo di Timau, un baluardo calcareo che raggiunge i 2217 metri e pare sbarrare il percorso per l’Austria, che dista non più di una decina di minuti d’automobile. Risalendo la valle del Bùt verso il passo di Monte Croce Carnico s’incontrano i paesi di Zuglio, Arta Terme, Sutrio, Treppo, punteggiati da edifici di Gino Valle: schietti manifesti di una modernità che, per non cadere nell’equivoco vernacolare, non esita a misurarsi con sperimentazioni scomode.
A 800 m s.l.m. c’è Timau, frazione di Paluzza che conta 400 anime, in prevalenza anziani. Qui, dove di solito gli usci delle case restano schiusi anche la notte, si parlano tre lingue: oltre a italiano e friulano, un tedesco d’origine medievale che fino a un paio di generazioni fa era l’idioma più diffuso. Adagiato a mezza costa sul fianco orientale della vallata, nel piccolo cimitero (150 inumazioni su un lotto di circa 50 x 25 m) non si seppelliva più nessuno dagli anni quaranta. Con la predisposizione, nel 1920, di un nuovo recinto a breve distanza, l’impianto storico ha conosciuto un progressivo degrado diventando inaccessibile, infestato dalla vegetazione spontanea. Nel 2005, un inatteso quanto esiguo finanziamento statale di 135.000 euro ne ha sancito la restituzione all’uso.
Da sotto si scorge solo parte del basso muro in pietra che recinge il camposanto. Un ampio sentiero erboso, salendo obliquamente, conduce all’ingresso. Accostandosi alla soglia, si scopre che il portale – in sostituzione dell’originario, andato perduto – non è incardinato sugli «esausti» piedritti preesistenti ma è di poco discostato. È, questa, una scelta che si fa cifra costante dell’approccio al progetto: la stratificazione dei segni è letterale e avviene per sovrapposizione, mentre la posa in opera non contempla trattamenti di finitura dei materiali. Echi del magistero scarpiano ma anche memorie ondivaghe tra art brut e arte povera. Le pesanti ante del portale rivelano una perizia artigiana nella realizzazione, guidata dal rigore minimale del disegno e dal gusto dei dettagli: semplici lamiere intelaiano un tavolato di larice, mentre un’elegante e studiatissima feritoia rettangolare stabilisce un nesso visivo con l’interno.
Varcata la soglia e saliti pochi gradini, anch’essi in cemento grezzo, pare di rivivere le atmosfere preromantiche della lirica cimiteriale: un prato dal manto irregolare ha progressivamente avuto la meglio sulle poche lapidi scolpite, sulle croci in ferro e sulle tante minuscole lastre recanti solo un numero. Al muro perimetrale, che segue il declivio e che è stato ricomposto con le stesse pietre laddove pericolante (rinunciando a insensati quanto onerosi restauri), sono state nel tempo addossate epigrafi e croci. Il muro manca invece per metà del lato a monte: una slavina se lo portò via negli anni cinquanta. Al suo posto, una gabbia di due reti elettrosaldate su un cordolo di cemento funge da graticcio per tre rampicanti (lonicera, clematis alpina e glicine): una barriera vegetale, spoglia d’inverno, che si fa metafora della vita.
Sul breve asse che dall’ingresso conduce alla cappella mortuaria, baricentro visivo del camposanto, una piastra in ferro, composta da due lastre agganciate e di poco sospesa da terra, è l’unico segnale della presenza di un ossario ipogeo, cui si accede sollevandola. Lo stesso escamotage dello scuretto che separa gli elementi preesistenti dai nuovi ritorna nella copertura della cappella: un foglio di rame graffato, senza gronda né pluviali, che pare galleggiare sui muri in pietra sopravvissuti al crollo del tetto a capanna. Ancora, il ripristino del manufatto è giocato sull’indipendenza strutturale e semantica tra vecchio e nuovo, qui declinata in una sorta di «scatola cinese». All’interno, infatti, un’armatura lignea offre l’appoggio alla copertura e il supporto per i pannelli in betulla che rivestono le pareti fino a un’altezza di 2,5 m (in luogo delle piastrelle prescritte dalle norme igieniche; di qui la ragione della finitura a olio dei pannelli, in deroga all’approccio di cui si è detto). I giunti del pavimento, in lastre di grigio carnico (calcare), disegnano una croce. L’essenziale cubicolo – illuminato sui lati dalla preesistente apertura quadrata, entro cui dall’esterno è stato inserito a spinta il serramento in ferro – è introdotto da una rudimentale porta a due ante e da una poderosa soglia in pietra monoblocco. Intimo e ascetico, lo spazio è ornato solo da una mensola in ferro precariamente sospesa dall’alto, ove ardono i lumi: lo pervadono calde fragranze di legno e cera d’api.
Abbiamo a lungo riflettuto circa la visibilità da accordare a un simile intervento. La visita ha fugato ogni residuo dubbio, in ragione di un atteggiamento progettuale che vale come metodo: la capacità di «ascoltare» i luoghi e interpretare i temi; di puntare sulla reversibilità e di fare di necessità virtù rispetto a budget più che risicati; l’umiltà di saper fare un passo indietro senza l’ambizione d’imporre segni eclatanti o di pronunciare sentenze finali. Così, l’intervento rientra appieno nel continuum storico, rivelando la propria contemporaneità. L’averlo pubblicato molto dopo la sua ultimazione è riprova della pertinenza dell’approccio. Il trascorrere del tempo, infatti, ha portato il suo contributo: opacizzando, annerendo, arrugginendo, ammuffendo le superfici; facendo sembrare quegli inserti, peraltro non mimetici, come presenti da sempre.
Per le festività di Ognissanti, sulle neglette tombe è ricomparso qualche vaso di fiori.

Autore

  • Luca Gibello

    Nato a Biella (1970), nel 1996 si laurea presso il Politecnico di Torino, dove nel 2001 consegue il dottorato di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica. Ha svolto attività di ricerca sui temi della trasformazione delle aree industriali dismesse in Italia. Presso il Politecnico di Torino e l'Università di Trento ha tenuto corsi di Storia dell’architettura contemporanea e di Storia della critica e della letteratura architettonica. Collabora a “Il Giornale dell’Architettura” dalla sua fondazione nel 2002; dal 2004 ne è caporedattore e dal 2015 al 2024 è direttore. Oltre a saggi critici e storici, ha pubblicato libri e ha seguito il coordinamento scientifico-redazionale del "Dizionario dell’architettura del XX secolo" per l'Istituto dell’Enciclopedia Italiana (2003). Con "Cantieri d'alta quota. Breve storia della costruzione dei rifugi sulle Alpi" (2011, tradotto in francese e tedesco a cura del Club Alpino Svizzero nel 2014), primo studio sistematico sul tema, unisce l'interesse per la storia dell'architettura con la passione da sempre coltivata verso l’alpinismo (ha salito tutte le 82 vette delle Alpi sopra i 4000 metri). Nel 2012 ha fondato e da allora presiede l'associazione culturale Cantieri d'alta quota

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Last modified: 13 Luglio 2015