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Written by: Inchieste

La casa: bene d’uso o investimento?

Nel riflettere sul tema della casa come del valore d’uso o come bene d’investimento nel nostro paese, dobbiamo ricordare una differenza sostanziale tra il modello italiano/mediterraneo e quello tedesco/centro europeo: le caratteristiche del titolo di proprietà dello stock abitativo. In Italia, ma in tutta l’Europa meridionale, l’80% delle famiglie vive in una casa di proprietà. Nel centro e nord Europa la percentuale scende di molto, al 60%, al 50%. La Germania guida il «modello» dell’affitto. E questo dopo i processi di privatizzazione di ampie quote del patrimonio residenziale pubblico che hanno interessato gli anni ottanta e novanta (Regno Unito) e 2000 (Germania, Olanda). La ragione della differenza non è solo culturale. Non è il legame «casa di pietra (o cemento, per dirla con Pier Luigi Nervi) = edificio per sempre = proprietà, o casa di legno = per un po’ = affitto», a fare la differenza sul peso del titolo d’uso. Ci si avvicina di più alla comprensione se valuta il peso del patrimonio pubblico e il suo ruolo sul mercato nei due casi: minima presenza nel sud Europa; grande presenza nel centro e nord Europa. E la presenza di ampie quote di patrimonio pubblico delimita solo una parte del problema della casa come bene d’investimento (se ho un’offerta pubblica ampia e un mercato dell’affitto efficiente ed equo, lo scenario della valorizzazione del bene casa si compone entro dinamiche più ragionevoli). In realtà la componente più importante va cercata nell’economia. La risposta più convincente del perché in area mediterranea ha vinto il «modello proprietà» va trovata sul piano monetario, nell’inflazione. Italia, Grecia, Spagna e Portogallo sono i paesi della grande inflazione, a partire dal dopoguerra fino all’ingresso nel mercato della stabilità monetaria e della bassa inflazione che l’Europa ha costruito sul modello tedesco. Quale affitto è possibile con tassi di inflazione che hanno toccato nel passato anche il 20% annuo? Quale capacità di accesso, quale spesa è necessario sostenere, per garantire un rendimento all’investimento del 4-6% attraverso il canone d’affitto? Non a caso il «fai da te», l’autocostruzione, l’abusivismo, la capacità di adattarsi a un determinato contesto economico sono state risposte proprie di tutti i paesi mediterranei a una parte del problema abitativo. La stessa cosa si può dire per la propensione al risparmio e all’investimento nella casa come bene rifugio in risposta all’eccezionale processo di svalutazione monetaria che ha caratterizzato il nostro paese sino a non molto tempo fa. È vero però che gli anni 2000 hanno rappresentato per molti paesi (a eccezione della Germania) un periodo di grande speculazione immobiliare, con la crescita del valore delle case. Ma sono stati anche gli anni dello scoppio della grande bolla immobiliare planetaria (o quasi). Molti europei sono diventati proprietari, così come molti statunitensi. È noto il ruolo della rivalutazione drogata del prezzo delle case nel meccanismo della speculazione finanziaria di strumenti come i subprime, i derivati che hanno corroso, con il rischio nascosto e diluito, l’economia mondiale, trasformando la leva della bolla immobiliare su cui poggiavano nella più grande crisi finanziaria della storia e in una della più grandi recessioni.
Ovunque, in Italia come oltreoceano, nel Mediterraneo e in Olanda (tranne in Germania e Giappone), lo scoppio della bolla immobiliare ha portato a una riduzione drastica delle compravendite (dall’80% della Spagna al 30% della Francia) e a significative riduzioni del prezzo (15-20%). La crisi immobiliare ha colpito anche il nostro paese: riduzione delle compravendite (30%) e dei prezzi (10-15% a seconda degli osservatori). È vero che la crisi immobiliare iniziata nella seconda metà del 2006, nel primo semestre del 2010 mostra già segnali di ripresa (+4,5%) delle compravendite (e qui attenzione alle illusioni, come insegna il mercato statunitense), ma la questione di fondo riguarda il futuro della casa come motore dell’economia in quanto bene d’investimento.
I cicli immobiliari del nostro paese dal secondo dopoguerra sono lì a dimostrare che la casa, per chi sa attendere, da noi ha sempre reso: l’altalenante dinamica dei cinque cicli mostra, in ultima analisi, una continua rivalutazione del bene casa. Certo, ci sono stati momenti in cui i prezzi sono scesi significativamente, ma alla fine il ciclo è sempre ripartito e il valore della casa ha continuato a crescere. Non come in Germania e, soprattutto in Giappone.
Nella sua storia, invece, il modello tedesco ha giocato poco con la forte crescita dei prezzi; e anche il boom immobiliare a seguito dell’unificazione post 1989, rispetto agli indici degli altri mercati mondiali, è stato molto contenuto: esiste dunque un modello tedesco su cui sarebbe utile riflettere più attentamente. In Giappone le cose sono andate molto diversamente dagli anni ottanta a oggi: in sequenza si è assistito a un boom industriale-tecnologico che nella fase finale si è trasformato in boom finanziario borsistico e poi in boom immobiliare (mini ciclo di accumulazione sistemico di Arrighi), con il conseguente scoppio della più grande bolla immobiliare della storia. Da allora (1992) i prezzi sono continuati scendere, e gli uffici addirittura valgono la metà di quello che valevano nel 1980; di poco minore è il decremento di valore registrato per le abitazioni. Ma c’è qualcosa che accomuna la Germania e il Giappone a partire dalla seconda metà degli anni novanta a oggi, differenziandoli dalle altre economie avanzate: si tratta della contrazione demografica che per varie ragioni (tra cui rilevanti flussi d’immigrazione) non ha invece interessato le altre economie avanzate. Fuoriusciti da un’eccezionale bolla immobiliare, Giappone e Germania si sono confrontati una fase di riduzione strutturale della domanda. È, questo, uno scenario possibile anche per altre economie nei prossimi anni. Certamente lo è per l’Italia. Le analisi demografiche restituiscono un paese che, con gli attuali tassi d’immigrazione, nel prossimo decennio continuerà a crescere, ma molto meno di quanto non sia cresciuto nel recente passato.
Quindi cresciamo grazie agli stranieri, che esprimono un certo tipo di domanda abitativa. La popolazione italiana è invece destinata a diminuire già nei prossimi dieci anni. Inoltre, le famiglie italiane, come già detto, sono fortemente patrimonializzate. La loro ricchezza principale è la casa. Le famiglie proprietarie sono dunque interessate a tenere i prezzi delle case alti. Ma una quota sempre maggiore di famiglie patrimonializzate è fatta di persone anziane: potremmo dire che oggi abbiamo tanti nonni e pochi nipoti. Nei prossimi 10-20 anni si libereranno quote significative di patrimonio abitativo. Gli anziani tenderanno a valorizzare o (se non ce la faranno) monetizzare il loro patrimonio: la casa come «pensione». Chi ce la farà renderà i nipoti patrimonializzati. Così, nel nostro paese il rapporto tra domanda e offerta nello scenario di appena vent’anni è destinato a cambiare: i flussi d’immigrazione e la conseguente domanda abitativa spingono su prodotti di costo contenuto, rilanciando i temi dell’affitto e dell’edilizia sociale.
Certamente, il quadro è più complesso: un conto sono le grandi città, inserite in circuiti economici rilevanti e internazionali; un conto sono i beni di qualità dei quali già Hirschman richiamava l’importanza; un conto sono le diverse dinamiche territoriali in cui si può articolare il mercato italiano (turismo, aree più o meno servite, ecc.). In ogni caso, ci sentiamo tuttavia di sostenere che lo scenario dei prossimi cicli immobiliari avrà componenti più complesse di quelle che abbiamo vissuto in passato. E non è detto che il valore della casa potrà, tout court, rivalutarsi.

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Last modified: 13 Luglio 2015