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Written by: Inchieste

Carmen Andriani: cerco soluzioni per una diversa idea di domesticità

Il ruolo assegnato, nella storia dell’architettura, alla distribuzione come momento del progetto inclusivo di ragioni funzionali e sociali, ha delineato un rapporto privilegiato tra spazio costruito e «vie sociale», fino alla modernità.
Oggi invece, sempre di più, lo spazio sembra definirsi lontano da queste ricerche, come pura conseguenza dell’involucro. Il dibattito avviato da questo Giornale nel numero 83 (aprile 2010) intende stimolare l’attenzione del contesto professionale, coinvolgendo affermati progettisti italiani su un tema fondativo del fare architettura. Dopo baukuh, Iotti & Pavarani e Camillo Botticini, risponde alle nostre 4 domande Carmen Andriani.

1. Distribuzione, qualità dello spazio, tipologia: che cosa rappresentano per lei questi temi?
L’architettura è configurazione plastica di uno spazio per sua natura informe, è costruzione poetica di spazi di relazione in cui il soggetto possa muoversi non già come utente (è limitante ridurre tutto a un buon funzionamento) bensì come abitante seppur temporaneo di quello spazio. Percorrere il grande atrio-foyer della Filarmonica di Hans Scharoun a Berlino è una forte esperienza spaziale: per la complessità urbana riprodotta all’interno, la moltiplicazione delle fughe prospettiche sempre variate, la gravità flottante del volume dell’auditorium. Non esiste uno schema a priori che possa riprodurre ciò che sensorialmente l’architettura può esprimere nella totalità dei suoi significati. Inoltre le condizioni del nostro presente sono profondamente mutate: non più il principio unificante della concezione moderna che rendeva possibile l’ordine tassonomico di Alexander Klein, né più la contrapposizione netta dei linguaggi. La cultura postmoderna, più fluida e inafferrabile, ha prodotto configurazioni ibride. Nel passaggio dalla città al territorio si sono mescolate, nella nozione onnivora di paesaggio, categorie spaziali fino ad allora tenute distinte. Né sembra avere più senso la dialettica tipologia-morfologia, sostituita dal paradigma della narrazione che meglio può assecondare l’incessante trasformazione, le formazioni discontinue, l’atipicità degli assetti urbani di oggi. Ci si chiede se sia possibile decifrare una nuova nozione di tipologia o se questa si sia definitivamente eclissata con la fine del moderno.

2. Anche la modellazione 3D si sta rivelando un efficace strumento di controllo del progetto distributivo, al pari dei tradizionali studi basati su piante e sezioni?
La tipologia ha nella pianta il suo luogo concettuale ed empirico. La distribuzione ne è un corollario e fa parte della strumentazione tecnica di cui dispone l’architetto nel progettare. L’introduzione del computer ha portato indiscutibili vantaggi, ha reso possibile l’esplorazione di tutte le forme visibili, introducendo di fatto fra i materiali dell’architettura un repertorio iconografico esterno a essa. Si è creato un nuovo luogo del progetto, in taluni casi se ne è alterato il paradigma fondativo. Ad esempio, disancorandolo dal suolo, come nel caso delle strutture informali generate da modelli matematici, in cui la pianta perde il suo ruolo di elemento fondativo e generatore di forma. La distribuzione si misura simultaneamente sulle tre dimensioni, segnando, ove possibile, un flusso autonomo. Appartengo a una generazione che si è formata sul disegno a mano e sull’uso di tecniche materiali e plastiche ma che ha sin dall’inizio ha mescolato questo procedimento a quello della progettazione digitale. Lo sviluppo parallelo dei due registri serve a mantenere ancorato il progetto alla sua realtà costruttiva e all’attesa della sua realizzazione. Serve a contrastare le fascinazioni di una rappresentazione virtuale fine a se stessa che non vede più nella realtà fisica il suo naturale compimento.
3. Quanto incide oggi la volontà della committenza, pubblica o privata, sulle scelte distributive, e quali sono i margini di libertà del progettista? Il progetto è la risultante integrata di molteplici fattori che possono mutarne o condizionare il processo. La committenza è uno degli elementi più importanti. Il rapporto diretto con una committenza che sia un soggetto fisico (pubblico e privato) rappresenta ancora la condizione migliore per tenere al centro il progetto e le sue qualità intrinseche (distribuzione, materiali, spazi, finiture e ogni tipo di scelta che ne accompagna la realizzazione). I parametri di giudizio sono spesso legati al rapporto qualità-costi che, con i vincoli normativi, costruiscono attorno al progetto una griglia a maglie molto strette. Personalmente non ho avuto problemi a portare avanti fino alla definizione esecutiva il progetto per la nuova sala dei congressi a Chieti. Né è stato difficile adattarlo ai vincoli, molto coercitivi, di una sala per 900 posti. Il problema semmai sorge più avanti, nella complicata trattativa fra soggetti diversi (pubblico-privato in questo caso) che regolano il passaggio alla sua realizzazione. È qui che l’architettura ha qualche difficoltà, nonostante tutte le buone ragioni di cui si fa manifesto; è a questo punto che il progetto, paradossalmente, diviene l’anello debole del lungo processo realizzativo.
4. È possibile per il progettista stimolare vera innovazione distributiva e tipologica in un mercato residenziale omologante gestito da soggetti privati e rispetto a un’utenza che non ne fa esplicita richiesta? Questa è la sfida di cui dovremmo farci carico: portare innovazione, anche «distributiva e tipologica», in un mercato residenziale che, nonostante la proliferazione di cubatura nelle periferie metropolitane, di fatto non soddisfa la domanda di una società variegata e impoverita. Inoltre la casa non è più «custodia dell’uomo privato» né la famiglia tradizionale è la configurazione sociale dominante. Rispondere a un’idea di domesticità diversa, all’insegna della flessibilità e modificabilità nel tempo, fare della casa a basso costo il primo luogo di sperimentazione per trasformazioni di portata più ampia è il nuovo compito dell’architetto. A condizione di una maggiore integrazione fra le diverse politiche che agiscono sul territorio. Queste considerazioni sono confluite nel progetto di una nuova centralità per Romanina, nella periferia sud-est di Roma, elaborato da un gruppo interdisciplinare da me coordinato nel 2004/2005. A fronte della grande offerta abitativa che quest’area sta predisponendo nell’ambito dell’edilizia tradizionale, il progetto puntava a un mercato diverso e a dare risposte innovative sul piano sia tipologico che tecnologico. Programmando unità residenziali ad accrescimento variabile nel tempo, rivolgendosi a un’utenza flessibile e non necessariamente stanziale, prevedendo una forte integrazione con i servizi, polverizzando infine la residenza in microunità sull’intera estensione dell’area per predisporre ovunque una vitalità di vicinato a tempo pieno.

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Last modified: 14 Luglio 2015