Visit Sponsor

Bruno PedrettiWritten by: Reviews

Dal museo delle glorie all’archivio egualitario

Parma. Nel tumultuoso 1968 Arturo Carlo Quintavalle, allora giovane studioso di arte medievale interessato anche al contemporaneo nei generi tanto «maggiori» quanto «minori» (dalla pittura alla fotografia, dall’architettura al manifesto), cominciava a formare presso l’Università di Parma, in significativa coincidenza con l’istituzione del Fondo manoscritti di Pavia a opera di Maria Corti, un pionieristico archivio del Novecento soprattutto italiano. Quei primi nuclei di acquisizioni, sostanzialmente donazioni, che si sarebbero estesi sino a vantare oggi «oltre undici milioni di pezzi», portarono presto a costituire una cospicua raccolta e, nel 1976, l’archivio universitario prese il nome ufficiale di Centro studi e archivio della comunicazione (Csac).
Durante tutti questi anni le acquisizioni sono state supportate da sistematici programmi espositivi, ma si doveva attendere la mostra ora in corso a Parma per cogliere la parabola complessiva del percorso intrapreso. Nelle tre sedi in cui si distribuisce, la mostra presenta 1.200 pezzi che documentano le collezioni radunando cinque generi espressivi: arte, fotografia, architettura, design, moda. Si tratta del risibile rapporto di 1:10.000 con quanto conservato dallo Csac, ma com’è naturale la scelta non poteva che privilegiare alcuni di quelli che Quintavalle definisce gli highlights. Varrà allora la pena ricordare che nella sezione Arte, allestita presso il restaurato Palazzo del governatore, troviamo ragguardevoli highligths di Fontana e Melotti, Burri e Schifano, nonché un Morlotti che colpisce come i silenzi di Zurbarán; mentre nella sezione Architettura, allestita nei bellissimi spazi spogli delle Scuderie della Pilotta, c’imbattiamo in disegni di progetto e oggetti di design di Portaluppi e Samonà, Ponti, Gardella e Sottsass, nonché in alcune illustrazioni di Nizzoli e Nervi capaci di rallentare il passo anche del visitatore frettoloso.
L’interesse della mostra non va tuttavia cercato nella vetrina dei gioielli di famiglia ma negli sterminati «segreti d’archivio» dello Csac, dissimulati eppure percepiti al pari di una memoria che distilla per la coscienza poche cose per volta. Certo, nelle sale si ha l’impressione di visitare un classico museo di arte contemporanea, là dove forse si sarebbe potuto restituire con più «confusione» sinestetica l’accumulo dell’archivio; e rischia inoltre di scivolare nel sussidiario scolastico l’insistita informazione che scandisce le opere secondo le categorie del «figurativo» e dell’«astrazione» in pittura, o della «città», delle «cose» e dell’«utopia» nella progettazione… Per fortuna, a correggere quest’ansia tassonomica concorrono gli stessi curatori, che ci ricordano di continuo la differenza tra «museo» e «archivio». Lo scrive anche Quintavalle nel suo lungo saggio in catalogo, dove, con toni quasi da autobiografia scientifica, ribadisce che le opere esposte non sono quelle di «un museo in potenza ma di un archivio in atto». Questa formula conferma che il maggiore pregio della mostra consiste in una sorta di egualitarismo archivistico che vuole prendere le distanze dalle solite apoteosi e gerarchie dei racconti artistici. Fa bene quindi il fondatore dell’archivio a spiegare come sia anacronistico, «dopo Benedetto Croce», continuare a redigere classifiche di «capolavori» e a tracciare nitidi confini tra opera d’arte, documento storico e processo espressivo; e altrettanto bene fa il direttore dello Csac, Gloria Bianchino, a rimarcare come oggi convenga perlustrare le «fasi della ricerca» e i «collegamenti» tra i generi artistici anziché insistere in ricami sui narcisismi di singoli autori o sugli onori di una disciplina.
Per chi, come lo scrivente, ha dedicato più di una pagina allo statuto processuale dell’opera d’arte nella modernità ed è convinto che l’odierno totalitarismo estetico sia diventato una generale sinestesia destinata ormai, come paventava decenni orsono Werner Jaeger, a livellare le culture verso il «meramente antropologico», l’iniziativa di Parma giunge come una speranza, almeno, che si aprano nuove politiche espositive e di ricerca sulle arti contemporanee.

Autore

  • Bruno Pedretti

    Scrittore e saggista milanese, da anni è docente presso l’Accademia di architettura - USI a Mendrisio. Ha lavorato per le case editrici Einaudi e La Nuova Italia. Ha curato le pagine culturali di «Casabella» ed è stato tra i fondatori de «Il Giornale dell’Architettura». È autore di saggi su arte, architettura, estetica: Il progetto del passato (1997), La forma dell’incompiuto (2007), Il culto dell'autore (2022), e di testi letterari: Charlotte. La morte e la fanciulla (1998, nuova ed. 2015), Patmos (2008), La sinfonia delle cose mute (2012), Il morbo della parola. Una tragedia (2020), Memoria della malinconia (2022). Ha partecipato alla curatela di mostre: Carlo Mollino architetto 1905-1973: costruire le modernità (Archivio di Stato, Torino 2006-2007), Gillo Dorfles. Kitsch: oggi il kitsch (Triennale di Milano, 2012), e curato personalmente: L’immagine maestra. Opere di Arduino Cantafora e dei suoi atelier (Museo d’arte Mendrisio, 2007) e Charlotte Salomon. Vita? o Teatro? (Palazzo Reale, Milano 2017)

    Visualizza tutti gli articoli

About Author

(Visited 79 times, 1 visits today)
Share
Last modified: 20 Dicembre 2016