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Danilo Udovicki-SelbWritten by: Città e Territorio

Un’agorà civica per Dallas

Dallas (Texas). Si potrebbe pensare che gli onnipresenti valori americani autoreferenziali, come avere ogni cosa «più grande di tutti», siano ormai stati relegati a un tenace passato «adolescenziale» del paese, vista l’avanzata della globalizzazione; per non citare l’esempio degli straordinari exploit architettonici cinesi. In Texas, però, non è così.
La festosa inaugurazione del AT&T Performing Arts Center di Dallas ha confermato questa tradizione. A Dallas i texani si sono addirittura superati: con comprensibile orgoglio, sono riusciti a riunire in un unico punto del cuore cittadino niente meno che quattro vincitori del premio Pritzker. Oltre infatti ai due edifici appena inaugurati firmati Rex/Oma (Joshua Prince-Ramus, il partner della sede Oma di New York che nel 2006 ha rotto brutalmente con Rem Koolhaas rinominando lo studio come Rex e ha portato avanti il progetto di Dallas), e Foster and Partners, il Dallas Art District comprendeva già il Symphony Center di Ieoh Ming Pei del 1989 e il Nasher Sculpture Center di Renzo Piano del 2003. Manca solo una cosa: un parcheggio a loro appositamente riservato, come quelli per i premi Nobel nelle università americane.L’idea delle autorità d’invitare l’intera cittadinanza per festeggiare l’evento si è rivelata astuta. Mentre tutto intorno risuonava musica di ogni genere, dal rock al flamenco, sono accorse decine di migliaia di persone, in fila per ore per una visita guidata del Dee and Charles Wyly Theater di Rex/Oma (575 posti su 7.500 mq) e per la Margot and Bill Winspear Opera House di Foster and Partners (2.200 posti su 24.000 mq; lo studio inglese ha firmato anche l’Annette Strauss Artist Square, spazio per concerti all’aperto da 5.000 persone). Ne è passato di tempo dai lontani anni sessanta, quando nel suo Saper vedere l’architettura Bruno Zevi lamentava cautamente il mancato interesse pubblico per l’architettura! Il nuovo complesso comprende anche la Dallas City Performance Hall su progetto di Som che sarà completata l’anno prossimo, è stato promosso con un evento durato tutto il giorno, conclusosi alle otto di sera con grandiosi fuochi d’artificio, e sembra essere riuscito a dar vita a una città nota per la sua assenza di grazia.
Rispetto alle nuove strutture sfolgoranti – il teatro di Rex/
Oma, lucente come un sipario diafano tirato sul cielo (effetto creato dai tubi verticali di alluminio, importati dall’Argentina, che riflettono il sole), e il teatro dell’opera di Foster, che abbraccia la piazza con un immenso baldacchino a persiana, modulando la luce intorno al brillante cuore creato da imponenti pannelli di vetro rosso – l’edificio di Pei, lì accanto da vent’anni, è apparso pesante, privo di lustro e scialbo.
Oltre all’uso non convenzionale dei materiali, ai dettagli raffinati come i tubi esterni o la fitta rete di metallo corrugato incollata su alcune pareti interne, o ancora ai neon appesi verticalmente nel foyer, il Wyly Theatre offre alcune delle più innovative installazioni teatrali. L’edificio a dodici piani con le sue funzioni «impilate» in verticale, ripensa completamente la forma tradizionale del teatro. Gli spazi di supporto invece di essere collocati intorno al palcoscenico, proiettori, soffitti e altri congegni meccanici, compresi i salottini per le prove degli attori e gli uffici, sono sistemati sopra o sotto l’auditorium, favorendo la massima interazione e flessibilità sia alle rappresentazioni che ai posti a sedere. Eppure, questa meccanica high-tech audacemente innovativa crea un legame inaspettato con le origini del teatro dell’antica Grecia: mediato solo da enormi vetrate, l’auditorium ad anfiteatro è aperto alla città, rafforzando l’idea di un centro culturale che funge da nuova agorà civica. Carico di reminiscenze storiche, l’edificio esibisce due grossi ascensori esterni che corrono lungo la facciata nord, ricordo del primo progetto costruttivista dei fratelli Vesnin, la «Leningadskaja Pravda» del 1923, i cui ascensori esterni, collocati per la prima volta all’esterno di un edificio, rispondevano al concetto formalista di spostamento.
L’aspetto più originale di questo Performing Arts Center, tenuto insieme da 40.000 mq di parco pubblico progettati da Michel Desvigne, però, è il fatto che entrambi gli edifici sembrano due attori impegnati in un dialogo perenne. Non si può guardarne uno senza accorgersi dei riflessi infinitamente modulati di quello alle proprie spalle: cosa che dà vita a complessi effetti cinematografici. Grazie alla ricchezza delle superfici riflesse, comprese le lunghe balaustre esterne di vetro e il grande specchio d’acqua poco profonda tra i due, un edificio non esiste senza l’altro. Talvolta non è nemmeno possibile distinguerli.

Autore

  • Danilo Udovicki-Selb

    Laureato in Architettura e pianificazione all'Università di Belgrado, ha conseguito un master in Filosofia al Boston College e un dottorato in Storia, teoria e critica dell'architettura Massachusetts Institute of Technology. È docente associato presso la Austin School of Architecture dell'Università del Texas.Ha pubblicato molti contributi sugli anni 30 in Francia e Unione sovietica, in particolare sull'avanguardia architettonica russa, su Charlotte Perriand e Le Corbusier. La sua più recente pubblicazione ha riguardato la cura del volume “NARKOMIN: Moisej Ginzburg and Ignatij Milinis” (Ernst Wasmuth Verlag, Berlino). Attualmente, sta scrivendo un libro sulle avanguardie sovietiche nell'epoca staliniana. È corrispondente del Giornale dell’Architettura dal 2003.

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Last modified: 17 Luglio 2015