Io faccio parte della categoria dei baby boomers, classe 1963. Alle scuole elementari noi da grandi si voleva fare lastronauta perché avevamo visto in televisione Tito Stagno descrivere lallunaggio dellApollo sul satellite. Ricordo il compagno di banco Giancarlo che, figlio del medico del paese, già aveva il destino tracciato: il medico. Ma si avvicinava il tempo di decidere davvero ed erano anche gli anni (il 1977) in cui fare Scienze politiche e Filosofia o Sociologia a Trento costituiva una scelta militante.
Passata leuforia di un improbabile impiego alla Nasa, rimanevano due scelte: il Dams di Bologna o lAccademia di Brera a Milano; il fascino delle barricate e di Radio Alice da una parte e la tradizione della scenografia in una scuola di cui fuori non si sapeva assolutamente nulla (forse anche dentro) dallaltra.
Da quando sono docente di Design (dal 1995) mi chiedo cosa cerchino di dirci i diciottenni di oggi quando si presentano ai test di in numero notevolmente superiore ai posti programmati.
Immediato il riferimento alla mia esperienza personale: fascino di un mestiere, di un ruolo, di un profilo che plasma le cose fondamentali dellesistenza contemporanea, le merci, la comunicazione, la moda. Probabilmente dobbiamo pensare che, allapice dello sviluppo della società dei consumi, i nostri giovani misurino la loro possibilità di partecipare con dignità al «party delle meraviglie»? Oppure pensiamo male e facciamo peccato mentre si tratta piuttosto di una nuova generazione di responsabili demiurghi di un mondo migliore, sostenibile, soft, adeguato alle grandi sfide del futuro ed alla limitatezza delle risorse.
Non importa. I giovani voglio dirci quello che nessun politico capisce: che la scommessa del futuro del nostro paese in declino sta nella capacità di progetto, nella cultura attraverso la quale sapremo riprenderci da tutte le crisi del mondo, a cui siamo abbonati, lavorando a formare la classe dei mediatori di significato, di forma, di funzione e di valore che fanno questo interessante e difficile mestiere. I giovani vogliono dirci quello che tutti i professori dei settori scientifico disciplinari dominanti e i ministri delluniversità non vogliono ascoltare: che il mondo gira e che il governo e ladeguamento dellofferta di formazione e di ricerca universitaria deve seguire questo movimento, possibilmente anticiparlo. I giovani vogliono dirci quello che Marx scriveva 150 anni fa ne Il Capitale: «A prima vista una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi risulta che è una cosa intricatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Finché è valore duso non cè nulla di mistico in essa. Ma appena si presenta come merce si trasforma in qualcosa di sensibilmente soprasensibile». I giovani vogliono dirci che le merci sono la vita nella quale noi stessi li abbiamo cresciuti. Quindi: o adesso forniamo loro gli strumenti per comprenderne il magico funzionamento e poterne determinare le caratteristiche a loro piacimento, o formeremo commodities come gli ingegneri, cercando di competere su quanto li pagano in India e in Cina.
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