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Written by: Progetti

Restaurare la terra cruda

Con il progetto Mali, l’Aga Khan Trust for Culture si sta occupando di tre tra le moschee più importanti dell’Africa, prevalentemente realizzate in banco pourri, un mix di fango e pula di riso, utilizzato sia per i mattoni sia per il rivestimento di facciata. Il progetto pilota avviato nel 2004 e concluso nel 2006 ha riguardato la moschea Komoguel di Mopti. L’edificio, a rischio di crollo, è stato ristrutturato eliminando il cemento sul tetto di un precedente restauro che ne stava compromettendo la statica, sostituendo i mattoni danneggiati e applicando un nuovo strato d’intonaco in terra cruda. La particolarità di questi edifici sta proprio nella necessità di costanti interventi di manutenzione. Gli strati in terra cruda, infatti, tendono a rovinarsi e a sfaldarsi durante la stagione delle piogge. C’è quindi la necessità annuale di un intervento di rinnovamento dell’intonaco esterno, che fa assomigliare il volume edilizio a un corpo vivente in continua trasformazione. Una tradizione secolare capace di riunire la comunità intorno al proprio tempio religioso. A Djennè, per esempio, dove si trova la moschea più grande al mondo in terra cruda – oggetto di un intervento iniziato nel dicembre del 2008 – si tiene la manifestazione più celebre con cittadini, divisi in antiche corporazioni, che si arrampicano lungo i muri esterni appoggiandosi ai toron, sostegni in legno di palma inseriti nelle facciate, per applicare il nuovo strato di banco. Ma oggi c’è una frattura tra le tecniche edilizie contemporanee e i processi di costruzione tradizionale. Nei passaggi intergenerazionali si rischia di perdere queste conoscenze. In questa chiave si può leggere l’obiettivo del Fondo Aga Khan: recuperare ma anche sviluppare le competenze all’interno della comunità. L’altro cantiere attualmente in corso si trova a Timbuktu. La moschea di Djingereyber, la più antica in terra dell’Africa subsahariana, dal 1988 è tutelata dall’Unesco. I lavori, partiti nel 2006, si concluderanno nel 2010. Coordinati dai responsabili del progetto, tra cui la restauratrice italiana Josephine d’Ilario, oltre 70 artigiani hanno rifatto la copertura (struttura in legno di palma, strato vegetale e finitura superiore in terra cruda), rinnovato parte degli intonaci esterni in banco, ristrutturato gli ambienti interni (la grande sala colonnata della preghiera e le due corti aperte). Tutti i materiali provengono dalle aree circostanti Timbuktu. Un modo per coinvolgere gran parte della popolazione in un progetto che vuole prospettare un futuro possibile e alternativo: non solo per l’edificio coinvolto ma per tutta la città.

Autore

  • Michele Roda

    Architetto e giornalista pubblicista. Nato nel 1978, vive e lavora tra Como e Milano (dove svolge attività didattica e di ricerca al Politecnico). Dal 2025 è direttore de ilgiornaledellarchitettura.com

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Last modified: 18 Luglio 2015