Secondo approfondimento dedicato al rapporto annuale curato da Symbola, POLI.design e Deloitte Private
Nella prima parte dedicata al rapporto annuale Design Economy 2020 abbiamo riportato le testimonianze dei protagonisti, ricavandone interessanti indirizzi sulle ricadute dell’economia del design e su come soggetti promotori e soggetti coinvolti vedano il presente e il futuro della disciplina, sia dal punto di vista formativo/professionale che imprenditoriale. Serve però soffermarsi su alcune sintesi del rapporto, quella che Symbola, POLI.design e Deloitte Private chiamano “fotografia”, una lunga istantanea annuale sul design in Italia e in Europa.
L’Italia è il Paese europeo con il maggior numero d’imprese (34.000) operanti nel settore del design, che offrono occupazione a 64.551 lavoratori e generano un valore aggiunto superiore a 3 miliardi. Solo per fare un paragone attualissimo, il settore dei dispositivi medici in Italia conta circa 3.957 aziende, neanche il 10% rispetto al totale censito da Symbola nel design. Statistiche note quelle relative al posizionamento dietro Regno Unito e Germania in termini di giro d’affari a livello UE (contributo italiano del 14,8%), ma largamente davanti a Francia e Spagna. Ancora più note le criticità relative alla cronica frammentazione del tessuto imprenditoriale tra liberi professionisti e piccolissime imprese (quasi il 54% del totale, mentre le imprese con più di 5 milioni di fatturato hanno un’incidenza occupazionale dell’8,4%). Sempre erogate in forma di pillole, il documento riporta le domande al test d’ingresso per la laurea triennale a livello nazionale: esse superano di quattro volte i circa 3.300 posti disponibili. L’appeal dei corsi di laurea in Design sembra quindi al passo con Economia, Medicina e Ingegneria, ovvero le prime scelte di chi, secondo il Miur, si è immatricolato all’università nel 2018-19. Bisognerebbe approfondire se tale tendenza sia prevalentemente basata sull’attrattività del corso di laurea, oppure se le matricole abbiano colto l’eco proveniente dal mercato del lavoro. Milano, infine, si conferma capitale: la città assorbe il 18,3% dell’output nazionale. Torino e Roma, rispettivamente seconda e terza, incidono per l’8% e per il 5,3%. Sul fronte occupazione Milano assorbe da sola circa il 14% degli addetti. Anche qui, dunque, nessuna sorpresa.
Quattro i focus sui quali soffermarsi. Il primo riguarda il legame tra Made in Italy e design. Le Marche sono la regione italiana con i massimi i livelli di specializzazione del design nelle filiere dell’arredamento e della calzatura. Seguono Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna e Veneto, in cui sono presenti moltissime aziende del design legate al fashion, alla meccanica, fino alla ceramica e al mobile. I settori industriali che fanno maggiore ricorso al design sono legno arredo, abbigliamento e automotive.
Il secondo riguarda il ruolo del design come motore della competitività. Su circa 3.000 imprese manifatturiere, è emersa una stretta correlazione tra investimenti in design e crescita lungo tre direttrici: fatturato, addetti, export. Laddove l’investimento si associa ad interventi sostanziali in materia di produzione sostenibile, le imprese green e design oriented mostrano differenziali di performance significativi rispetto alle altre: 22,6 punti percentuali in termini di addetti (38,6% contro 16%), 25,1 punti in termini di fatturato (48% contro 22,9%) e 13,5 punti in relazione alle esportazioni (38,6% contro 25,1%).
Il terzo focus è basato sull’impatto del Covid-19 sull’operatività dei designer. Il 45% dei liberi professionisti ha dichiarato di non aver mai interrotto la propria attività, in quanto fortemente orientata all’impiego delle tecnologie digitali. Tuttavia, quasi tutti i soggetti intervistati hanno riscontrato difficoltà economiche legate a una contrazione della domanda (68,2%) e problemi di liquidità (48,3%). L’emergenza ha avuto un impatto sui volumi di fatturato per il 39,7% dei progettisti, con il 23,8% che segnala un calo superiore alla metà dei ricavi allo stesso periodo dell’anno precedente. Interessanti le positive ripercussioni associate alla riprogettazione di spazi pubblici e privati in numerosi ambiti: ristorazione (16,6%), pubblica amministrazione (11,9%), home working (7,3%) e sanità (6%).
La formazione, infine. Il sistema formativo italiano del settore conta 18 Università, 15 Accademie delle belle arti, 15 Accademie legalmente riconosciute, 11 Istituti privati autorizzati a rilasciare titoli AFAM e 6 ISIA, per un totale di 242 corsi di studio distribuiti in vari livelli formativi e diverse aree di specializzazione (Product, Communication, Fashion, Space). Nel complesso sono stati formati 8.244 designer, di cui 3.822 in Università e 4.422 (dato in forte crescita) nel comparto AFAM. Circa il 70% degli studenti ha conseguito una laurea triennale o un diploma accademico di I livello, mentre il 21,3% ha approfondito gli studi conseguendo una laurea magistrale o un diploma accademico di II livello; infine, solo l’8,7% ha perfezionato la propria formazione con master di I o II livello. Guardando ai singoli istituti, il Politecnico di Milano si colloca saldamente in testa alla classifica per numero di laureati e consolida il terzo posto in Europa e il sesto mondiale nella classifica QS World University Rankings by Subject per il design, prima fra le università pubbliche. Tuttavia, anche Nuova Accademia di belle arti (NABA) e IED mantengono un importante ruolo ai fini della formazione.
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Last modified: 15 Dicembre 2020
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