Presentato il rapporto annuale a cura di Symbola, POLI.design e Deloitte Private, con l’annuncio di un fondo per le imprese creative
Per gli addetti ai lavori, Design Economy 2020 è uno dei rapporti più attesi. Numeri e riflessioni ben organizzati in 3 sezioni (Dati, Innovazione e Formazione) e 115 pagine. E una breve ma necessaria disamina sull’impatto del Covid-19. Raccontare l’economia del design in Italia e in Europa non è cosa facile. Bisogna dare atto che Fondazione Symbola, Deloitte e POLI.design stanno rendendo gradualmente questa analisi uno strumento operativo per comprendere e indirizzare la professione, in quella che sembra essere una condizione evolutiva permanente di una società condannata, mai come in questo 2020, alla creativa osservazione di due regole: farsi precari e adattarsi.
Non basta un articolo per sintetizzare le opinioni della tavola rotonda organizzata il 26 novembre scorso per presentare i contenuti del rapporto, da quest’anno anche con il supporto di ADI, CUID e Comieco, oltre al patrocinio del Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale. Per questa ragione proveremo a parlarne in due momenti differenti, il primo dei quali dedicato alle riflessioni dei protagonisti, il secondo all’analisi dei numeri.
Partiamo da una piccola sorpresa emersa dal meeting virtuale, almeno per chi non frequenta i piani alti della politica italiana. Il design è rappresentato all’interno della squadra dei ministri e sottosegretari da Gian Paolo Manzella, sottosegretario al Ministero dello Sviluppo economico con delega alle “Imprese creative”. Manzella ha introdotto il suo intervento sottolineando che rapporti come Design Economy servono a cogliere la reale dimensione del settore e la sua capacità d’innovazione, ma anche ad accrescere la consapevolezza del valore del design per la competitività del sistema produttivo nazionale. Potremmo definire anche “tenero” (per un politico) un passaggio del suo intervento, quando ha ribadito un concetto trapassato per gli addetti del settore, ma non ancora propriamente compreso da chi si occupa di politiche del design: spingere il passaggio del design da concetto “ornamentale” a concetto “strategico”.
Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola, per naturale vocazione (e ideale ispirazione) ha basato invece il suo intervento sulla necessità di un’economia più a misura d’uomo, dove il design è capace d’incrociare bellezza, tecnologia, empatia in uno scenario di frontiere dettate dalla green economy e dell’economia circolare. Affrontare il futuro, in questa interpretazione di Realacci, significa inquinare meno e non lasciare indietro nessuno. Diverso, per ovvie ragioni, il punto di vista di Ernesto Lanzillo, Deloitte Private Leader per l’Italia, che vede nel design un motore d’innovazione e competitività in contesti di profonde trasformazioni come per la pandemia, poiché rende le imprese più resilienti, in grado di adattarsi dinamicamente al cambiamento e di ri-immaginare il proprio posto nel mercato. Potenziare quindi il valore della creatività nelle strategie aziendali, che differenziano il Made in Italy nei mercati internazionali e contribuiscono alla resilienza delle micro e piccole-medie imprese in un contesto socio economico di continuo cambiamento. Francesco Zurlo, presidente di POLI.design e preside vicario presso la Scuola del Design del Politecnico di Milano, si sofferma infine sulla progressiva integrazione di capacità proprie del design nelle organizzazioni, nelle istituzioni e nella società, con l’avvio di un dialogo diretto con i decision maker del sistema. «Il design scala l’organigramma, oggi, perché mette al centro la persona per spingersi spingere – in modo responsabile – verso una dimensione più nature centred, attenta non solo all’utente ma anche alla società, alla cultura, all’economia e all’ambiente».
Nella proliferazione d’idee e nel rimbalzo di nuovi ruoli e terminologie per il design, la concretezza delle azioni, “le cose da fare”, sono state tracciate sempre dall’intervento di Manzella. Il sottosegretario ha annunciato l’istituzione di un fondo per le imprese creative, con l’obiettivo di finanziare le nuove imprese e di sostenere quelle già costituite. Tra le varie azioni, quella che sembra di maggiore sostanza è la messa a punto di voucher per consentire alle imprese tradizionali (in questo caso probabilmente definite come soggetti ancora poco inclini ad internalizzare i processi di design) di avvalersi di creativi. Il che lascerebbe sperare in misure snelle e veloci per sostenere le spese della tanto agognata interazione.
La presentazione del rapporto Design Economy 2020 ha quindi lanciato un segnale di unità, inevitabile in un periodo in cui non possiamo permetterci divisioni, dove la politica e il sistema del design italiano, per quanto rappresentato in parte, potranno lavorare per costruire un luogo di riflessione. Se è vero che l’Ocse immagina nella pubblica amministrazione del futuro l’impegno dei designer industriali e dei servizi, allora non resta che attuare uno sforzo corale. E dimostrare che la pasta della creatività non è fatta solo di sogni.
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Last modified: 15 Dicembre 2020
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