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Emanuele PiccardoWritten by: Biennale di Venezia

Gli Stati Uniti a Venezia: Freespace is Citizenship

Gli Stati Uniti a Venezia: Freespace is Citizenship

Intervista a Niall Atkinson, Ann Lui e Mimi Zeiger curatori del Padiglione nazionale intitolato Dimensions of Citizenship alla 16. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia

 

Mimi Zeiger, Niall Atkinson, Ann Lui. Photo by Nancy Wong

Il Padiglione americano si presenta a Venezia con “Dimensions of Citizenship” a cura Niall Atkinson (professore associato di Storia dell’architettura presso il Department of Art History alla University of Chicago), Ann Lui (assistente professore all’Art Institute di Chicago, architetta e co-fondatrice dello studio Future Firm) e Mimi Zeiger (critica, educatrice e curatrice che ha collaborato a diversi progetti esposti presso l’Art Institute di Chicago, alla Biennale di Venezia 2012 e al New Museum di New York). Il tema della mostra appare in contrasto con le politiche del presidente Donald Trump ma sorprendentemente i curatori sono ottimisti sull’efficacia dell’architettura nel modificare il significato di cittadinanza. A sviluppare il progetto sono stati invitati sette team di architetti: Amanda Williams & Andres L. Hernandez (Chicago, IL), Design Earth (Cambridge, MA), Diller Scofidio + Renfro (New York, NY), Estudio Teddy Cruz + Fonna Forman (San Diego, CA), Keller Easterling (New Haven, CT), SCAPE (New York, NY), Studio Gang (Chicago, IL). Ecco quanto emerge dalla nostra intervista.

 

 

Yvonne Farrell e Shelley McNamara scrivono nel loro manifesto che Freespace “rappresenta la generosità di spirito e il senso di umanità che l’architettura colloca al centro della propria agenda, concentrando l’attenzione sulla qualità stessa dello spazio”. Quanto questo assioma si relaziona con i temi esplorati nel Padiglione americano?

Mimi Zeiger: Siamo eccitati dalla generosità di spirito contenuta nel tema “Freespace”. Della mostra delle Grafton Architects condividiamo importanti interessi paralleli in architettura, intesa non solo come bene pubblico per i cittadini ma anche come potenziale contesto per lo scambio democratico e come agente di attività civica. Ascoltando la presentazione di Farrell e McNamara a New York, siamo rimasti sorpresi nel trovare una coincidenza di punti di vista tra noi e le curatrici, come il riconoscimento che l’architettura opera su diverse scale, dal micro al macro, dal tavolo all’edificio, all’infrastruttura, al pianeta…

 

“Dimensions of Citizenship” è il tema del Padiglione americano. Come e perché avete scelto questo concept?

Ann Lui: Le domande sulla cittadinanza oggi sono pressanti sia in America sia a livello globale. “Dimensions of Citizenship” punta all’importante ruolo dell’architettura nel rispondere a tali questioni, dagli antichi modelli di città ideali alle domande attuali sui confini nazionali, fino alle diverse visioni di futuri possibili. L’ambiente costruito è infatti sempre stato coinvolto nel farci riflettere e nel formare le nostre idee su cosa significhi l’appartenenza. In “Dimensions of Citizenship” illustreremo come gli architetti e i designer abbiano una voce critica e unica, come possano lavorare insieme e come sia possibile negoziare questo stare insieme. Coloro che espongono all’interno del padiglione presentano casi studio su differenti scale, esplorano il modo in cui i diritti e le responsabilità della cittadinanza non sono solo organizzati intorno al concetto di nazione ma anche intorno a blocchi di città, censimenti, bacini idrografici e diaspore culturali. Speriamo che la discussione sulla cittadinanza possa, attraverso il design e quindi gli architetti, attivare il dialogo sulle future modalità di appartenenza che continueranno a evolversi.

 

Durante la presidenza di Trump sembra bizzarro discutere di cittadinanza quando il vostro Governo non riconosce i diritti del popolo dei Dreamers. La vostra mostra confuta le tesi del Governo?

Mimi Zeiger: L’architettura non può evadere queste spinose domande di inclusione ed esclusione. Ci troviamo in un momento in cui i titoli in prima pagina dei giornali di tutto il mondo ci chiedono regolarmente di considerare chi ha accesso ai pieni diritti di cittadinanza e chi no. Risulta dunque urgente affrontare la nostra condizione attuale: come l’ambiente costruito possa essere una piattaforma per l’espressione di eventi politici. Riteniamo che queste domande siano molto più grandi e di gran lunga precedenti a una singola amministrazione. Usiamo il Padiglione degli Stati Uniti per indagare questi problemi e interrogarci su di essi, ma intanto il contesto in cui agiamo è globale ed in continua espansione. Alla fine, il nostro auspicio è trascendere l’attuale condizione dell’America e sviluppare una visione dell’architettura come importante agente di trasformazione. Teddy Cruz e Fonna Forman, ad esempio, presentano “Mexus” che esplora una zona transnazionale comune al confine col Messico, mentre Amanda Williams e Andres Hernandez, con l’installazione dell’artista Shani Crowe nel cortile del padiglione, propongono un’architettura che potrebbe spostare tutte le persone emarginate da un luogo di sopravvivenza a quello che chiamano “thrival”, una condizione di liberazione democratica.

Ann Lui: I lavori presenti in mostra spesso esplorano il progetto di futuri più inclusivi e non evitano le modalità in cui l’architettura e il design sono stati storicamente complici in condizioni di esclusione. Il lavoro di Studio Gang, ad esempio, fa i conti con l’eredità dei monumenti confederali a Memphis; Keller Easterling si riferisce ai modi in cui la logistica globale usa la manodopera sfruttata senza che le popolazioni entrino in crisi per questo aspetto negativo. Credo sia fondamentale che la disciplina architettonica rifletta sui modi specifici in cui il design può o non può intersecarsi con la costruzione e lo smantellamento delle condizioni di cittadinanza.

 

L’architettura può influenzare il populismo?

Niall Atkinson: Se per populismo intendiamo gli attuali movimenti statunitensi ed europei che hanno rimodellato il panorama politico, allora l’architettura, per come la stiamo intendendo e mettendo in gioco, ha un ruolo specifico da giocare. Se il populismo tende ad unire certi gruppi attorno a un’idea d’identità comune, per l’esclusione di altri che non sono considerati appartenenti a quella identità, allora la nostra strategia è far pensare ai progettisti di appartenere a una serie di valori che si contrappongono agli aspetti esclusivi del populismo. Ad esempio, le modalità dell’architettura che indirizzano le singole connessioni a gruppi più grandi, che collegano le persone attraverso le ecologie regionali, piuttosto che i miti culturali (che riconfigurano spazi dedicati ai flussi umani transnazionali e che consentono agli utenti di personalizzare digitalmente le loro coordinate spaziali e le relazioni transfrontaliere), possono lavorare insieme per indebolire le forme di populismo che riducono le relazioni spaziali umane a forme ristrette di accesso. Pensiamo che uno dei punti di forza del nostro tema e il modo in cui i nostri partecipanti entrano in gioco, non solo espanda le nozioni tradizionali di cittadinanza, ma riconosca anche i modi in cui tutti noi abitiamo contemporaneamente più forme di appartenenza. Nella nostra vita quotidiana, viviamo all’interno di questi gruppi estesi e sovrapposti, che entrano ed escono continuamente, per i quali l’architettura può agire come facilitatore spaziale. A livello più locale, i nostri sforzi di sensibilizzazione alla Biennale di Architettura di quest’anno, nel segno della programmazione di “Citizenship”, cercano di stabilire un dialogo con i residenti veneziani ed evidenziare i loro sforzi per ridisegnare le loro vite e la loro città dal basso. Stiamo lavorando con diversi gruppi e singoli soggetti che si stanno impegnando in un proprio “urbanismo a livello di strada”, che inserisca diversi elementi “popolari” (in contrasto con “populisti”) nel dibattito su come potrebbe essere un paesaggio architettonico umano.

 

Immagine di copertina, Memphis Landing. Courtesy of Studio Gang

 

LEGGI L’INTERVISTA IN LINGUA INGLESE

 

 

Autore

  • Emanuele Piccardo

    Architetto, critico di architettura, fotografo, dirige la webzine archphoto.it e la sua versione cartacea «archphoto2.0». Si è occupato di architettura radicale dal 2005 con libri e conferenze. Nel 2012 cura la mostra "Radical City" all'Archivio di Stato di Torino. Nel 2013, insieme ad Amit Wolf, vince il Grant della Graham Foundation per il progetto “Beyond Environment”. Nel 2015 vince la Autry Scholar Fellowship per la ricerca “Living the frontier” sulla frontiera storica americana. Nel 2017 è membro del comitato scientifico della mostra "Sottsass Oltre il design" allo CSAC di Parma. Nel 2019 cura la mostra "Paolo Soleri. From Torino to the desert", per celebrare il centenario dell'architetto torinese, nell'ambito di Torino Stratosferica-Utopian Hours. Dal 2015 studia l'opera di Giancarlo De Carlo, celebrata nel libro "Giancarlo De Carlo: l'architetto di Urbino"

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Last modified: 11 Aprile 2018