La lezione e lo stile del figlio nobile del professionismo colto del dopoguerra
È difficile pensare e trovare un’altra persona che abbia saputo coniugare e rispecchiare il proprio modo di essere nella propria opera, come ha fatto Italo Lupi, purtroppo scomparso all’età di 89 anni.
Architetto, sardo di nascita ma milanese per adozione e formazione, è figlio nobile di quel professionismo colto che segna la rinascita della nazione e della città nel secondo dopoguerra, fondando quella cultura del design in seno all’architettura che ancora oggi ci contraddistingue. Come le migliori figure di quell’epoca, sa sposare la professione con la comunicazione, raggiungendo non minori risultati come giornalista e direttore, che come grafico e architetto. Certo, è universamente noto come grafico, ma sarebbe fuorviante non leggere la sua attività, che sceglie e pratica con grande passione e totale dedizione, se non come una forma privilegiata del progetto che, sicuramente, si muove nelle due dimensioni del foglio, ma è sempre alla ricerca di una tridimensionalità che si esprime al meglio nella raffinata composizione, nella costruzione dell’articolazione cromatica, nel disegno di paesaggi che giocano con la figura umana, con l’architettura e l’urbanistica sino a richiedere composizioni in raffinati collages, con precise e geometriche fustellature, a cercare una finestra sullo spazio, un accento su un particolare, come in molte famose copertine di «Domus».
Lo ricordiamo nel giorno del conferimento della laurea ad honorem da parte della Scuola del Design del Politecnico di Milano, a Bovisa nel 2015, in quell’aula Castiglioni – non a caso nel loro studio di Piazza Castello i primi passi del nostro – nella quale Italo si muoveva un poco imbarazzato in toga e tocco neri, ma felice e giustamente orgoglioso di un riconoscimento che meritava pienamente.
Il suo curriculum non può prescindere dalla guida di «Abitare» (testata con la quale aveva già collaborato a lungo dagli anni settanta come art consultant e fotografo) per 15 anni tra gli anni novanta e duemila, spaziando in “tutta l’avventura della casa dell’uomo: abitare la casa, la città il territorio” (primo editoriale marzo 1992) e immediatamente prima dall’art direction di «Domus» (1986-92). E, ancora, le consulenze per laRinascente, IBM Italia, Triennale di Milano (la famosa T rossa a reggere l’architettura di Muzio); la grafica di mostre e musei, a fianco di Mario Bellini (Palazzo Grassi, Triennale di Milano, Stupinigi, Museo della Storia di Bologna), di Achille Castiglioni (padiglioni RAI e Bticino, Pitti immagine, Museo Correr a Venezia, XVII Triennale), di Guido Canali (mostra del Settecento al Palazzo della Pilotta a Parma), di Migliore e Servetto, con i quali lavora a Torino per le Olimpiadi 2006 (Compasso d’Oro) e per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia; i marchi, uno su tutti il logo del Museo Poldi Pezzoli di Milano, con il profilo della Dama del Pollaiolo che costruisce le lettere del nome nel 1980.
Vogliamo salutarlo e ricordarlo con affetto e riconoscenza citando due magistrali allestimenti al Castello Sforzesco di Milano: la mostra del Compasso d’Oro, con Roberto Lucci, nel 1970, e “Cesare Colombo fotografie 1952-2012”, che apre e chiude immediatamente, colta dalla pandemia nel 2020, rendendo ancora più struggenti le immagini di una Milano che non c’è più, ma che è stata la culla del progetto moderno.
Non potremo sostituire Lupi, ma potremo e dovremo sempre ricordare la sua lezione e il suo stile.
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Last modified: 29 Giugno 2023