Progettista e docente torinese, ha concepito il design come forma particolare del progetto di architettura e non come ambito separato
Giorgio De Ferrari, per gli amici “Dodo”, nato a Genova e mancato il 28 novembre scorso a Torino, ha lasciato una cospicua eredità a chi lo ha conosciuto. Ripercorrere alcune tracce di questo lascito può essere utile per avvicinarsi a quella prospettiva sorridente sul mondo che è forse è l’aspetto di lui che più lo fa rimpiangere.
Il professore De Ferrari rimane nella storia della scuola di Architettura di Torino per aver introdotto il design nella formazione degli architetti. Assistente di Achille Castiglioni dal 1969, nel corso dei decenni successivi lavora alla formazione dei programmi d’insegnamento e di un gruppo di designer che al volgere del millennio porterà alla costituzione di un autonomo corso di laurea di Design. Centrale nel progetto formativo di De Ferrari è una concezione del progetto di design come forma particolare del progetto di architettura e non come ambito separato e autonomo. Ben si adatta al suo approccio lo slogan rogersiano “dal cucchiaio alla città”, che descrive una continuità del progetto dello spazio fuori da supposti confini disciplinari e dentro la sua concreta esperienza di pratictioner (che lo rendono autore del cestino getta rifiuti come del palazzetto olimpico, dell’arredo della piazza come della forma della pensilina). Un design profondamente radicato in un territorio, che non a caso riesce a promuovere con due mostre di grande successo: “Torino Design” del 1995 e “Piemonte Torino Design” del 2006.
L’architetto De Ferrari, coerentemente con i presupposti di quel progetto formativo, non è stato solo un disegnatore di oggetti (pur avendo firmato prodotti seriali con aziende quali Alutecna, Elco, Fantoni, Gufram, Kartell, J.P. Decaux, Stilnovo) ma un progettista integrale. Con lo Studio De Ferrari Architetti (formato a metà anni ottanta coinvolgendo gli ex allievi Vittorio Jacomussi, Claudio Germak, Osvaldo Laurini, a cui si aggiunge successivamente il figlio Agostino) progetta ambienti ed edifici tesi a costruire fili di continuità con i luoghi che trasforma e i valori che a quei luoghi sono attribuiti. Laureato con Carlo Mollino nel 1961 e assistente di Roberto Gabetti fino al 1969, De Ferrari è un interprete di quell’«impegno della tradizione» che a Torino e in Piemonte costituisce linea originale e alternativa a quella dell’«impegno disciplinare» che, dagli anni ottanta fino a fine secolo, a Milano, Roma e Venezia, separa progressivamente l’accademia dalla pratica professionale. Al contrario di quanto viene predicato in quei contesti, l’approccio di De Ferrari è empirico e concreto: più attento alle contingenze del caso specifico che all’astrazione dei modelli. In nome di quell’impegno, inteso anche in senso professionale, l’architetto De Ferrari assume responsabilità di politica culturale: la presidenza della Società Ingegneri e Architetti in Torino e la direzione della rivista “Atti e Rassegna Tecnica” dal 1992 al 1995.
Se il professore e l’architetto raccontano qualcosa della figura istituzionale, per cogliere il punto della figura pubblica occorre avvicinarsi ai modi della persona. Uno studio professionale rigidamente organizzato come una comunità di pari; un progetto didattico fondato sullo scambio; una vita sociale fatta di aperture e solidità di legami. Istrione senza voler essere protagonista, narratore affabile e al contempo curioso, osservatore ironico e gentile: quello di De Ferrari è stato uno straordinario percorso dentro un mondo che lo interessava perché in continua trasformazione. Una nuova tecnologia costruttiva, una vecchia ricetta per cucinare il baccalà, un risvolto non chiaro di un romanzo, una diversa organizzazione dello spazio. La curiosità verso il presente e il sorriso con cui esplorare il futuro sono il regalo che resta a chi lo ha conosciuto.
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Last modified: 30 Novembre 2022