Le luci e le ombre, e i concreti rischi di un’omologazione globalizzata segregante, sul futuro del paese
Abbiamo imparato a conoscere dai notiziari i centri urbani di Mariupol, Kharkiv e Irpin, purtroppo già in stato di macerie. Mentre il conflitto avviato a febbraio non accenna a risolversi, si moltiplica la mole di proposte per la ricostruzione delle città ucraine.
Lo stallo del Recovery Plan
Al livello istituzionale più alto, l’European Alliance for Cities and Regions for the Reconstruction of Ukraine ha reso pubblica alla Conferenza di Lugano dello scorso 4 luglio la bozza dell’Ukraine’s Recovery Plan. Ponderoso documento, rivolto alle autorità europee (tra cui la rete dei sindaci Eurocities, che ha come presidente il primo cittadino di Firenze Dario Nardella), in cui si tenta di quantificare i danni, a cominciare dal dato impressionante di 116.000 edifici d’abitazione sin qui distrutti o danneggiati. Tali linee guida comprendono un capitolo urbanistico, con una serie d’indicazioni (a dire il vero ancora piuttosto lasche) volte a rifondare città moderne, inclusive, sostenibili. Città a misura d’uomo, con edifici efficienti energeticamente, mobilità a basso impatto, distribuzione equilibrata tra insediamenti e posti di lavoro, tutela dell’ambiente e infrastrutture competitive. Il Recovery Plan, come ha scritto il “New York Times” il 7 settembre, risulta però attualmente in fase di stallo per il divario tra le richieste dell’Ucraina, 750 miliardi di dollari in 10 anni, e quanto i donatori (Unione Europea e, solo in misura minore, G7) si sono finora mostrati disposti a concedere.
Il dibattito istituzionale sulla ricostruzione urbana appare dunque inevitabilmente ruotare intorno a una contrattazione economica internazionale, perché l’immane operazione di rinascita non potrà che affidarsi agli aiuti dall’estero. Ma sulla credibilità del Paese grava la gestione sostanzialmente clientelare dei dieci programmi finanziati dal Fondo Monetario Internazionale dopo l’indipendenza del 1991: di questi, stando al “Japan Times” dell’8 agosto, l’Ucraina ha saputo portare a termine solo uno.
Una “visione Ikea” del Manuale sulla ricostruzione
Per le ragioni appena ricordate strizza l’occhio all’Europa anche un documento più specificamente di settore, il Manuale sulla ricostruzione delle città ucraine reso pubblico a settembre. L’elaborazione è stata affidata dall’Ufficio del Presidente ucraino a Urbanyna, una ONG di progettisti che a Kiev impartiscono corsi privati trimestrali di pianificazione urbana – qualcosa per noi quanto meno inabituale. Il manuale costituisce una sorta di catalogo illustrato onnicomprensivo di soluzioni progettuali a tutte le scale, dalle pavimentazioni delle aree pubbliche agli schemi tipologici per l’aggregazione delle unità abitative. E si rivolge – recita l’introduzione del documento, scaricabile solo in lingua ucraina – ad architetti, politici, funzionari pubblici e soggetti della cittadinanza attiva locale.
Le coordinate di base sono le stesse del documento di Lugano: valori come accessibilità, mobilità dolce, biodiversità urbana, resilienza climatica, controllo del consumo di suolo. L’intento rimane quello di rispondere alle urgenze della ricostruzione mirando a riqualificare diffusamente gli ambienti di vita, con la modernizzazione delle infrastrutture collettive e il rilancio degli insediamenti marginali. Perché la decadenza delle città ucraine è unanimemente pre-databile alla guerra, e risale a decenni d’incuria delle infrastrutture in era socialista, seguita da una marcata deregulation edificatoria.
Nelle 400 pagine aleggia una certa “visione Ikea” applicata all’urbano: nuovi quartieri con spazi collettivi luminosi, green e visibilmente à la page, popolati da giovani multiculturali creativi. L’apparato fotografico sciorina le best practice tedesche, olandesi, francesi, danesi, inglesi, più qualche citazione da realtà oltreoceano (nessuna italiana).
Di converso, l’ampiezza dello spettro dei temi progettuali, dal micro al macro, non può non richiamare una certa pedagogia di scuola sovietica, quando i processi decisionali inerenti la costruzione del territorio erano gestiti calando burocraticamente dall’alto modelli-pilota sostanzialmente unificati, per diffondere un certo livello di servizi nelle aree periferiche rispetto a Mosca. Per lasciare il passo, dopo l’indipendenza, ai grandi promotori edilizi, dominanti dopo lo smantellamento del pubblico, che poco hanno fatto in materia di qualità urbana.
Freniamo il processo di ricostruzione
Per il futuro da più voci viene l’invito, contrastante con gli indirizzi ufficiali, a frenare il processo di ricostruzione: è l’idea maggiormente condivisa dagli esperti locali e stranieri a confronto nelle tre giornate del convegno “The Reconstruction of Ukraine: Ruination Representation Solidarity”, promosso da Yale e University College of London a inizio settembre. In questa sede, l’esperto internazionale Haris Piplas ha sottolineato con preoccupazione la “cacofonia delle proposte”, mettendo in guardia sulla lezione fornita dalla recente storia di Sarajevo, dove una mobilitazione finanziaria mondiale ha contribuito a suo tempo a rimettere in funzione la capitale bosniaca facendone oggi una città inquinatissima, gentrificata e luogo di segregazione. Un rischio parallelo individuato dagli studiosi è che la prevedibile ondata di contemporaneo globalizzato rimuova la fisionomia tradizionale dei luoghi: “Sarà possibile riconoscersi nelle città di origine per chi ritornerà dopo anni all’estero?”, si chiede l’architetta Yulia Frolova, attivista dell’iniziativa Re-start Ukraine. Servirà una policy generale, disegnata attentamente sulle mappe, con indici di trasformabilità a uso dei progettisti.
Non dimentichiamoci della guerra
In questo senso ha suscitato molte perplessità l’invito, già ad aprile, del sindaco di Kharkiv a Norman Foster, per guidare la ricostruzione della seconda città ucraina. Christina Crawford, storica urbana della Emory University, auspica che il grande nome divenga il perno di un panel di riferimento al servizio dei progettisti locali, protagonisti che comunque dovranno operare in stretto dialogo con le comunità interessate. Tra i rischi di una ricostruzione dettata da una cultura globalizzata vi è anche quello di cancellare totalmente le ferite della guerra, occultando per esempio i siti degli eccidi collettivi. Siti che andranno invece destinati alla fruizione pubblica, nel quadro di rigorose operazioni critico-interpretative, lo sottolinea Iryna Sklokina, ricercatrice del Center for Urban History of East Central Europe di Lviv.
Qualcosa in questa direzione sembra già concretizzarsi: si tratta di “Open fracture”, il parco memoriale progettato dello studio Slava Balbek a Irpin. Finché è rimasto in piedi, il ponte sull’unica via di fuga verso Kiev è stato usato da centinaia di profughi anche come riparo dalle bombe, immortalati da una fotografia che ha fatto il giro della stampa internazionale. La futura infrastruttura di attraversamento, necessaria, correrà al fianco delle rovine. Mantenute simbolicamente come tali.
Immagine di copertina: un disegno di esempio dell’articolazione tra spazi pubblici e privati tratta dal Manuale sulla ricostruzione delle città ucraine
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guerra , Pianificazione , ricostruzione , ucraina
Last modified: 19 Ottobre 2022