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Alessandro Colombo e Paola GarbuglioWritten by: Biennale di Venezia Reviews

Esporre la storia: la Biennale a Venezia nell’anno della pandemia

Esporre la storia: la Biennale a Venezia nell’anno della pandemia

“Le Muse inquiete”, la mostra al Padiglione centrale dei Giardini fino all’8 dicembre, racconta il dialogo tra le principali discipline artistiche nel corso del tempo

 

VENEZIA. Ai Giardini della Biennale in una luminosa mattina dell’ultimo sabato di agosto i curatori delle sei arti, che in laguna si rappresentano a partire da 125 anni fa in tempi e modi differenti, posano con il presidente della Biennale Roberto Cicutto per le foto di rito. Gli scatti non sono però così usuali: il gruppo con mascherina e, poi, gli stessi protagonisti, a viso scoperto ma distanziati, ci ricordano che il momento è di quelli che, probabilmente, non saranno dimenticati per molto tempo a venire. Come più volte rammenta Cicutto, giunto a raccogliere un testimone in tempi tutt’altro che semplici, la mostra che ci accingiamo a inaugurare (“Le Muse inquiete. La Biennale di Venezia di fronte alla storia”) non sostituisce la Biennale di Architettura, era già prevista e semplicemente viene messa in scena al Padiglione centrale dei Giardini permettendo così di aprirne gli spazi anche in questo anno di pandemia. Rassicurati, varchiamo la soglia dell’ex Padiglione italiano – così è ancora nelle menti di molti e nel riferimento del collage che in facciata ne allude alla storia per sovrapposizione d’immagini- e assistiamo alla messa in scena della settima Musa, l’Archivio Storico delle Arti Contemporanee (ASAC) della Biennale.

Cecilia Alemani, curatrice della futura mostra internazionale d’Arte che tornerà in anno pari nel 2022, fa gli onori di casa. Evidentemente, non può che essere così: sia per l’impegno profuso a coordinare questa non facile operazione condotta in condizioni di quarantena, sia perché, nonostante le arti si riconcilino qui per il tramite dei loro curatori, l’Arte è pur sempre la madre generatrice che a tutto ha dato inizio in Laguna. L’intento è chiaro: mettere in scena la storia dell’istituzione veneziana dal 1895 a oggi così come si è “scontrata” con la grande storia del Novecento per il tramite dei documenti dei ricchi archivi interni – in procinto di trovare la loro nuova sede all’Arsenale – coadiuvati da contributi esterni, come quelli fondamentali provenienti dall’Istituto Luce-Cinecittà, RAI Teche, nonché da molti altri archivi.

È un percorso globale cronologico che mira a sottolineare il dialogo fra le discipline, Arte, Cinema, Teatro, Danza, Architettura e Musica che da sempre convivono nella cultura dell’uomo ma che, in vero, a Venezia si sono molto spesso presentate separate. Contagioso è l’entusiasmo dell’Arte ed è sempre la nostra Alemani che, a partire dagli esordi affidati ad un castello di schermi costruttivamente posati sotto la cupola del Chini all’ingresso del Padiglione, coinvolge Alberto Barbera (Cinema), Marie Chouinard (Danza, impossibilitata a partecipare all’inaugurazione), Ivan Fedele (Musica), Antonio Latella (Teatro) e Hashim Sarkis (Architettura) in un racconto che a tratti appassiona anche per la necessaria sinteticità che comunque passa per più di mille reperti in mostra, i quali richiedono un agevole libretto per essere letti didascalicamente.

La mostra scorre veloce nelle sale, conducendoci dagli anni del Fascismo (1928-45) alla Guerra fredda e ai nuovi ordini mondiali (1948-64), dal ’68 alle Biennali di Carlo Ripa di Meana (1974-78), dal Postmoderno alla prima Biennale di Architettura del 1980 fino agli anni ’90 e l’inizio della globalizzazione, anche grazie alla grammatica allestitiva di Formafantasma, semplice ma efficace. Ed è un susseguirsi di ricordi, cose dimenticate e nuove scoperte che rimandano una all’altra e si rincorrono fra le sei arti. In una cacofonia diffusa che spazia dalla “musica degenerata” a Prokof’ev e Šostakóvič, ma anche alla Gubajdolina, ritroviamo il primo regista teatrale che porta Shakespeare in Italia col “Mercante di Venezia”, Max Reinhardt, la prima mostra di Picasso in Italia, Peggy Guggenheim e Jackson Pollock, mentre scopriamo che Bertolt Brecht non riuscì a rappresentare “Madre coraggio” a Venezia perché fermato al Brennero da un gran rifiuto che veniva da Roma. E ancora il ’68, con una delle non poche crisi che hanno permesso alla Biennale di rinascere, approdando pochi anni dopo a Vittorio Gregotti e Germano Celant (entrambi recentemente scomparsi ed insigniti di un Leone d’oro speciale insieme a Maurizio Calvesi e Okwui Enwezor, non meno compianti), a Ripa di Meana, al Cile e alla contestata Biennale del dissenso. Nelle molte bacheche i documenti si susseguono appesi con calamite; i filmati scorrono, le musiche risuonano e si arriva all’altro ieri constatando che questa grande avventura italiana, partita dalla laguna, è riuscita in ogni epoca a donare ai visitatori la visione migliore sulle arti e a poter aspirare ad essere oggi il laboratorio migliore per i temi più importanti al mondo, così come ha affermato Cicutto.

Se la mostra apre in un annus horribilis che, comunque, vedrà il settembre ricco del Cinema, del Teatro, della Musica, della Danza, “Le Muse inquiete” apre anche una serie d’interrogativi: che cos’è la storia? Ne è possibile la narrazione attraverso l’ostensione degli archivi? E questi, sono ancora il mezzo per conservare la memoria in un’epoca digitale, nonché il motore della ricerca futura? Sono tutti temi che crediamo la Biennale avrà modo d’indagare nelle prossime edizioni. Che, confidiamo tutti, siano prive di mascherina.

“Le Muse inquiete. La Biennale di Venezia di fronte alla storia”

a cura di Cecilia Alemani (Arte), Alberto Barbera (Cinema), Marie Chouinard (Danza), Ivan Fedele (Musica), Antonio Latella (Teatro), Hashim Sarkis (Architettura)

Realizzata da Archivio Storico delle Arti Contemporanee (ASAC) della Biennale con la collaborazione di Istituto Luce-Cinecittà e Rai Teche, Archivio Centrale dello Stato, archivi della Galleria Nazionale Arte Moderna di Roma, Fondazione Modena Arti Visive, Archivio Ugo Mulas, Aamod-Fondazione archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, Archivio Cameraphoto Arte Venezia, IVESER Istituto Veneziano per la Storia della Resistenza e della società contemporanea, Peggy Guggenheim Collection, Tate Modern London, LIMA AMSTERDAM

Giardini della Biennale, Padiglione centrale

Fino all’8 dicembre 2020

Autore

  • Alessandro Colombo e Paola Garbuglio

    ALESSANDRO COLOMBO nasce a Milano. Dopo gli studi classici e musicali si laurea in architettura al Politecnico di Milano nel 1987 con Marco Zanuso. Nel 1989 inizia il sodalizio con Pierluigi Cerri presso la Gregotti Associati. Con Bruno Morassutti partecipa a concorsi internazionali di architettura. Nel 1996 cura, con Pierluigi Cerri, il disegno di Palazzo Marino alla Scala a Milano per Trussardi e nel 1998 il progetto degli spazi pubblici e delle strutture di Expo ‘98 a Lisbona. È socio fondatore di Studio Cerri & Associati e di Studio Cerri Associati Engineering. Nel 2004 vince il concorso internazionale per la Villa Reale di Monza e il compasso d’oro con Naòs System, Unifor. È docente a contratto presso il Politecnico di Milano e presso il Master in Exhibition Design IDEA, di cui è membro del board. Su incarico del Politecnico di Milano cura il progetto per il Coffee Cluster, Expo 2015 Milano. PAOLA GARBUGLIO nasce a Milano. Completati gli studi classici si laurea in architettura al Politecnico di Milano sotto la guida di Marco Zanuso. Nel 1989 incomincia una collaborazione di dieci anni con la Gregotti Associati. Nel 1990, con Alessandro Colombo, vince il Major of Osaka City Prize indetto dalla Japan Design Foundation di Osaka con il progetto Terra: Instructions for Use. Nel 1994 conosce il maestro Gino Cosentino di cui diviene allieva ed amica e con il quale lavorerà fino al 2006 anno della sua morte. Nel 1999 fonda con Alessandro Colombo lo studio Terra, luogo d’incontro di arte, grafica, design e architettura. La sua produzione artistica degli ultimi anni comprende alcune centinaia di opere.

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Last modified: 23 Settembre 2020