Riceviamo e pubblichiamo alcune riflessioni sul paradosso del Padiglione Italia alla Biennale di Architettura di Venezia
Il Padiglione Italia della Biennale di Architettura è destinato a suscitare un sicuro dibattito: a differenza delle edizioni precedenti pone l’esigenza dell’immediato impiego della ricerca architettonica in possibili politiche territoriali. Tale ambizioso obiettivo non era posto da tempo in questo genere di manifestazioni. Tuttavia il tema, sicuramente di una certa emergenza per l’Italia e recentemente sottoposto a numerosi studi nell’ambito della geografia e della pianificazione, avrebbe dovuto portare a risultati ben più coerenti proprio sotto l’aspetto architettonico. Infatti, se consideriamo il semplice esercizio di separare i singoli progetti dal loro background e di analizzarli per quello che sono, cioè unicamente sotto il profilo del loro concept architettonico – nonché tipologico e distributivo, tecnologico, dell’uso dei materiali, del linguaggio impiegato – non si direbbe che ci sia qualcosa che li unisce: cioè il tema non influisce quasi per nulla nelle scelte architettoniche, se non in parte nel programma. E non è solo un problema dovuto ai singoli stili dei cinque gruppi selezionati che esprimono giustamente nell’approccio progettuale tutta la loro diversità. Il risultato è che delle architetture appaiono collocate in contesti spesso suggestivi, dislocati secondo una determinata logica che si ritrova all’interno delle premesse: l’elaborazione di progetti come possibili modelli “per il futuro dei territori interni del Paese”. Tutto finisce lì.
I luoghi non sembrano influire nell’intervento se non nell’incontro tra la topografia e il fatto edilizio, tanto è vero che siti diversi vengono presentati in plastici realizzati nello stesso stile e nella stessa scala. È vero che la rappresentazione dei progetti è stata uniformata per ragioni del tutto grafiche e comunicative, ma questo denota anche una chiara uniformità dello sguardo con cui si osserva il contesto. Il luogo cioè non informa il progetto. Il sistema descrittivo del luogo (analisi demografiche e sociologiche, rilievi morfologici e topografici, fotografie) viene piegato ad una narrazione derivante dalla scelta progettuale che risulta essere in questo caso unicamente un pre-testo per realizzare un’opera edilizia con un programma definito in precedenza, nella fase di analisi. Il luogo cioè viene immaginato in funzione di un progetto edilizio e non il contrario. Sembrerà un’osservazione banale, ma questo risulta essere esemplificativo di un preciso punto di vista con cui il progettista (il soggetto) guarda il luogo (l’oggetto) sul quale è chiamato ad operare in modo unilaterale. Il progettista cioè si fa carico di una pratica di dominio sui luoghi sulla base di una specifica cultura che ha sempre meno a che fare con quella dei luoghi stessi. Una specifica cultura che utilizza le proiezioni ortogonali in grado di ridurre drasticamente le altre modalità con cui leggere la complessità del luogo che, proprio per tale motivo, viene inteso come semplice estensione spaziale, immagine statica su cui poter operare come fosse uno sfondo delle proprie architetture. Tutto ciò appiattisce la visione della realtà, costringendo il progetto ad agire unicamente nei procedimenti di formalizzazione che attengono la sfera estetica e quella funzionale, riducendone di gran lunga le potenzialità e il ruolo di portatore di nuovi significati.
Il tema ricopriva una certa rilevanza sotto il profilo disciplinare, esigeva una riflessione sul cambio di paradigma con cui noi architetti siamo tenuti oggi ad osservare ed operare in ambiti di questo tipo. Ambiti che per definizione richiedono maggiore empatia tra culture diverse in quanto localizzati nelle aree deboli e marginali interne del Paese, per le quali è necessario evitare quanto più possibile forme di colonizzazione più o meno innestate nel sito utilizzando tipi edilizi consolidati, tecnologie e materiali provenienti dal mercato edilizio globale. In esse risulterebbe irrimediabilmente alterato il tessuto ambientale e sociale, la cui capacità di carico è stata già per definizione significativamente provata.
Comunque, se ci fosse stata, questa riflessione non è stata sufficientemente esplicitata nella mostra. Contrariamente, se la critica sugli strumenti concettuali non è diventata il centro del discorso progettuale durante i lavori, ci troveremmo di fronte ad un’ulteriore occasione perduta per riavviare un auspicato dibattito definibile “neo contestualista” per la quale l’esposizione, dopo lungo tempo, segnala in ogni caso una certa ripresa d’interesse.
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Immagine principale: Padiglione Italia (© Marco Introini)
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biennale venezia 2018
Last modified: 5 Giugno 2018