Questo è un dialogo con Hans Ibelings sulla teoria, sulla critica e sui nuovi media. La fine della supremazia del Movimento moderno, la globalizzazione o la terza rivoluzione industriale hanno generato una mutazione ovvero una stagnazione della cultura architettonica europea, a cui editori e critici rispondono con campagne di rifondazione degli strumenti per la comprensione del nuovo pluralismo architettonico. Ma non solo, la tradizionale rivista darchitettura vacilla sotto la popolarità di accesso allinformazione dai nuovi media, blog e twitter. Se le riviste riusciranno a sopravvivere, come dovranno cambiare?
«The Architecture Observer» è il nuovo «strumento multiforme per la critica architettonica», come lei stesso lo definisce. Quali sono i motivi del suo allontanamento da «A10» e i nuovi obiettivi editoriali di AO?
Dopo 8 anni e 44 numeri era arrivato il momento di fare qualcosa di nuovo. Ci sono motivi personali, come la morte di Arjan Groot con cui avevo fondato «A10»; motivi professionali, come la vendita della testata a una nuova casa editrice; e anche motivi «evolutivi». «A10» era nata sullonda di un grande entusiasmo e ottimismo circa il bisogno di una piattaforma di dibattito europeo. Oggi la crisi ha determinato una controtendenza che vede molti paesi, compresa lOlanda, chiudersi in una sorta di nazionalismo culturale. Infine, leditoria sta cambiando e lo stesso ritmo temporale del cartaceo è troppo lento, senza contare i costi della stampa. Ho deciso quindi di mettere alla prova limmediatezza del web e di pubblicare libri di approfondimento che avranno un formato standard per ridurre al minimo i costi. Lobiettivo è quello di sperimentare nuovi modi di comunicare con uno strumento più veloce, il web, e uno più lento, il libro.
In un recente editoriale lei parla di uno «stato di crisi» del giornalismo darchitettura, con i critici «ridotti a DJ che suonano lultima top 10» e «molte riviste che esistono solo per celebrare gli ultimi hit del momento». Può spiegarci meglio?
Siamo sommersi da uninflazione di comunicati stampa replicati ovunque. Una disseminazione dellinformazione senza nessun autentico e indipendente inquadramento critico. Spesso è addirittura una pura forma promozionale da parte degli architetti che obbligano le riviste a pubblicare limmagine che loro stessi hanno di loro stessi. Questo tipo di pubblicistica appiattisce il valore della critica. Provocatoriamente, vorrei dire che non si dovrebbero pagare gli articoli in base al numero di parole ma sulla qualità dei concetti: la cultura non si paga a peso! Così, suggerirei meno riviste, meno voci, ma più cultura.
Il web, i blog e twitter minacciano la sopravvivenza della stampa tradizionale. Se la rivista cartacea sopravviverà, che ruolo dovrà assumere nella nuova comunicazione darchitettura?
Non sono sicuro che le tradizionali riviste darchitettura riusciranno a sopravvivere per sempre. Le amo molto ma penso che si stiano avvicinando alla fine. La cultura oggi non è più centralizzata ed è giusto che vi si acceda da forme e fonti diversificate. Sul ruolo dei blog e di twitter, ho letto un articolo sul «Guardian» che si riferiva a questo tipo di comunicazione come a una sorta di «graffiti» sul muro. Messaggi effimeri e difficili da giudicare. Per me, sarà sempre indispensabile la presenza di un filtro e di un controllo editoriale che mette in relazione e in prospettiva storico-critica i contenuti.
In un recente convegno, Will Hunter (vicedirettore della britannica «Architectural Review») ha parlato delle tre «disgraces» della stampa darchitettura: troppo elitaria, troppo asservita al controllo degli architetti e troppo sottomessa al potere della pubblicità. Concorda con questa analisi?
Penso che ogni categoria professionale ha la sua stampa dedicata e anche agli architetti si può concedere davere la propria nicchia elitaria. Il controllo da parte degli architetti è sempre esistito, pensiamo a Le Corbusier che scriveva e pubblicava i suoi libri senza che nessuno potesse dirgli nulla. Il potere degli sponsor esiste e diventa quindi più difficile relazionarvisi quando proponi una rivista internazionale che non si rivolge solo al mercato locale. Essere indipendenti non è facile ma è una sfida irrinunciabile.
Si discute sempre più, a livello internazionale, del bisogno di una rifondazione disciplinare. È daccordo su tale urgenza per quanto concerne la teoria architettonica?
La teoria ha dato un contributo molto importante dal 1950 al 1980. Sono gli anni del passaggio dal modernismo al postmodernismo: la fine di unideologia che richiedeva una forte rivisitazione della teoria per riformulare le direzioni future. Il primo libro della collana di «The Architecture Observer» tratterà proprio delle conseguenze di questa trasformazione nella realtà contemporanea europea. Nel libro rifletto sul fatto che, dagli anni novanta a oggi, larchitettura dellOccidente ha raggiunto un livello da cui non riesce più a evolvere. A questo proposito, un recente articolo su «Vanity Fair» sottolineava che dagli anni cinquanta, ai settanta, ai novanta si sono registrati veri e propri salti epocali ma che, da allora, siamo rimasti stagnanti. Anche Alessandro Baricco analizza questo fenomeno nel suo libro I barbari, riferendosi alla mutazione sociale in atto. Un articolo di Douglas Coupland sul «New York Times» afferma che stiamo vivendo in una post-era, dove non cè più zeitgeist, o meglio, cè lo zeit (tempo) ma non il geist (spirito)! Viviamo in un limbo ed è sicuramente necessario ripensare una nuova teoria che ci indichi il futuro.
La fine della supremazia culturale del totalitarismo modernista è oramai storicizzata. Ritiene che si debba ricostruire una teoria globale o il pluralismo contemporaneo richiede strumenti più multidisciplinari e diversificati per comprendere larchitettura?
Penso che sia ancora possibile produrre una teoria coerente per comprendere che cosa stia accadendo sul piano sociale e culturale. Anche se non ha più senso parlare di un primato di un movimento o di una certa corrente rispetto a unaltra. Non esiste più unarchitettura universale. Non credo però che ci sia bisogno di nuove regole, quanto piuttosto di nuovi strumenti per comprendere la complessità della condizione attuale.
Nel 1998 ha pubblicato la prima edizione di «Supermodernism. Architecture in the Age of Globalization». Quanto è cambiata la scena architettonica da allora?
È rimasta quasi identica. La maggior parte delle opere significative di quegli anni sono ancora attuali. Nel 2008, mentre scrivevo European Architecture Since 1890, mi sono reso conto che la fine della guerra fredda, la globalizzazione, la crisi stavano accompagnando larchitettura a un traguardo. Il libro sul supermodernismo aveva in effetti lobiettivo di fissare i passaggi dal modernismo al postmodernismo al supermodernismo che, da un punto di vista concettuale, non è poi così diverso. Il pluralismo di oggi deriva infatti da quella libertà intellettuale e creativa che possiamo considerare una conquista del postmoderno che spezza per sempre il dogmatismo razionalista.
Nella cultura dellEurozona, esiste anche unarchitettura con un «brand europeo» o pensa che ogni nazione abbia la propria «identità»? In questo contesto geo-culturale, come colloca la realtà italiana?
Esistono ancora le identità nazionali, basate sulluso dei materiali, sulla risposta al clima e sulle tecnologie. Ma esiste anche una condivisione che riguarda molto di più il tempo che non il luogo in cui si vive. Si costruiscono edifici in Estonia che potrebbero essere realizzati in Svizzera. LItalia soffre moltissimo la mancanza di opportunità, ma soprattutto di una classe dirigente priva di ricambio generazionale. I nuovi architetti e critici italiani stentano a emergere e, sinceramente, anche coloro che pensavo fossero le nuove promesse, si sono oramai adeguati alle visioni dellestablishment.