Milano. Aperte in contemporanea il 6 maggio, due mostre, una nel Palazzo dellArte della Triennale, laltra nel Grattacielo Pirelli, rilanciano a Milano il mito di Gio Ponti «artista universale». Non certo una novità, visto che è dalla seconda metà degli anni ottanta del secolo scorso che la fortuna critica dellarchitetto lombardo ha cominciato a impennarsi, parallelamente al declino dellantico imperativo di Arthur Rimbaud, e dunque alleuforica consapevolezza di non dover più essere «assolutamente moderni». Assente alla storia per quasi mezzo secolo, nonostante unintensa attività ancora alle soglie della scomparsa, Ponti (1891-1979) può essere infatti indicato come una delle più interessanti cartine di tornasole per misurare i diagrammi della critica, le ascese e le cadute del successo e della reputazione in relazione ai mutamenti del gusto, delle aspettative e dei parametri culturali dei diversi contesti storici.
Quando comincia linarrestabile marcia di Ponti verso la conquista di quel «centro» dattenzione che gli fu sempre negato in vita? È da questa domanda che bisogna partire per capire cosa significano oggi le due mostre di Milano, e da quale prospettiva abbiamo la possibilità di entrare nella logica della loro costruzione, in realtà più politica che disciplinare.
Il termine di riferimento più significativo è il 1986, anno della prima mostra monografica di Ponti in Giappone. La chiave era già nel titolo di coda, «From the human-scale to the Post-Modernism», che individuava unimprobabile figura dellarchitetto come «precursore del Post-modernismo» o, più sfumatamente nelle parole di Arata Isozaki, come araldo di una cultura dellincertezza e dellambiguità. Tra le tante ambiguità, quella più insidiosa era proprio lallusione al futuro mercato della nostalgia, celebrato non a caso lanno successivo dallesposizione al Centro internazionale Brera di Milano, dedicata al tema dell«arte applicata», preludio della progressiva e dirompente irruzione di Ponti nellarena del modernariato e del design dautore. Da una parte, dunque, si avviava la costruzione dellindustria della nostalgia con limmissione di Ponti nel circuito dellantiquariato di lusso, dallaltra se ne rilanciava lambiguo mito di antesignano di quella figura di «architetto-artista» (quasi una «archistar» ante litteram) nutrita fino al più ridicolo ipertrofismo dalla cultura del neocapitalismo finanziario.
Alla prima logica corrisponde la mostra«Gio Ponti. Il fascino della ceramica» (catalogo Silvana Editoriale), alla seconda la rassegna «Espressioni di Gio Ponti», curata da Germano Celant alla Triennale di Milano. La prima è circoscritta allesclusivo perimetro del lavoro di Ponti alla manifattura Richard-Ginori di Doccia, in un arco di tempo che va dal 1923 al 1930 circa, trascurando non a caso quel ben più ampio capitolo dellinteresse di Ponti per l«incorruttibilità» della ceramica che si dispiegò non solo nella produzione di stoviglie di serie negli anni cinquanta e sessanta, ma soprattutto quello delle applicazioni per esterni, che accompagnò in maniera strutturale laffinamento della sua visione «anti-tettonica» dellarchitettura in favore di una esasperata esaltazione del valore delle superfici.
La mostra in Triennale (accompagnata dalla riedizione fac-simile, edita da Electa, della raccolta «Espressione di Gio Ponti», pubblicata nel 1954) nutre invece lambizione di proporre lampio spettro della creatività pontiana attraverso ladozione di un punto di vista già esplicitato da Celant nella sua prefazione alla monografia pubblicata nel 1990 dalla figlia dellarchitetto, Lisa, dove si esaltavano gli aspetti di felice irrazionalità della «fantasia» di Ponti, inconsapevole prefiguratore dellartista finalmente libero dal «dover essere» della funzione. Questa impostazione si riflette nellallestimento della mostra dove le eleganti «isole» disegnate dallo Studio Cerri propongono un itinerario a labirinto, che lascia il visitatore fluttuare in mezzo alla grande varietà di oggetti (mobili, disegni, maquettes ecc) che, dalle sontuose ceramiche di Doccia alle levigate esercitazioni degli anni sessanta, hanno caratterizzato la continuità di un pensiero progettuale incomprensibile al di fuori di quella dimensione etica del fare che costituiva la segreta, rocciosa intimità del pensiero religioso di Ponti. Accuratamente dimenticata la cultura materiale dellarchitettura (e del design), galleggia limmagine seducente dellistallazione artistica che riduce larchitetto a uno spensierato giocoliere di forme, materiali e colori. Né migliore accoglienza gli è riservata in un catalogo (Electa) che riproduce tutti gli stereotipi della critica antipontiana, solo limitandosi a ribaltarne le valutazioni.
Una notevole differenza rispetto alle mostre che tra il 2010 e il 2011 hanno celebrato la figura di Pier Luigi Nervi, coautore dellopera più famosa di Ponti, il grattacielo Pirelli, risultato di un lavoro che ha impegnato per due anni schiere di ricercatori nella convinzione (evidentemente anacronistica) che loccasione espositiva debba sempre essere alimentata dalla costruzione di un punto di vista critico che aumenti linformazione e la complessità, e non si limiti a ribadire le ovvietà.
«Espressioni di Gio Ponti», a cura di Germano Celant, Triennale di Milano, Milano, fino al 24 luglio
«Gio Ponti. Il fascino della ceramica», a cura di Dario Mattoni, Grattacielo Pirelli, Milano, fino al 31 luglio