È vero. Il genius loci è fuggito e non lo abbiamo più trovato. Abbiamo messo in fuga gli dei, ma un Dio ci ha cacciato da questi luoghi. Forse il paradiso terrestre non era, come si dice, un giardino nel bosco, ma una spiaggia dove il mare incontra la terra. Lì siamo nati alla storia, lì forse ci siamo annoiati passando ore e secoli distesi sulla sabbia senza sapere che cosa fare. Non so se ci hanno cacciati, ma forse ce ne siamo andati perché ci annoiavamo. Dopo, qualcuno si è pentito amaramente.
Filarete disegna un Adamo in fuga che si ripara dalla pioggia con le mani sopra la testa: mani che nel tempo sono diventate torri, fortezze, templi, monasteri, ville, condomini, infrastrutture, scali, ecc. Molti di questi sono posti lungo le coste dei mari e gli argini dei fiumi.
Una violenza antica, originaria, sta alla base di ogni atto di costruzione dello spazio. Apollo traccia nel corpo della vittima, «con il coltello in mano», le mappe delle strade, i reticoli urbani, intaglia le anse dei porti. Sulle spiagge si è distesa la violenza: sbarchi, militari e non, razzie. Da porti ospitali sono partiti i pescatori, ma anche conquistatori, esploratori: viaggi oltre le Colonne dErcole, Erfahrung, oppure nóstos, ritorno a casa.
Ci accorgiamo di queste coste, riconosciamo la natura, non tanto quando ci sbattiamo contro, quando ci è ostile, quando la analizziamo con la techné e con la scienza, ma soprattutto quando il «paesaggio» sta scomparendo. Lo guardiamo «esteticamente», quando ce ne sentiamo estraniati, quando cioè non appartiene più alla nostra vita. Allora con i poeti celebriamo gli dei assenti. Forse la modernità nasce quando i poeti ci hanno aperto gli occhi su di un mondo che ha perso mondo e natura; e con la natura, ci siamo persi anche noi. Prometeo è punito dagli dei non per aver rapito il fuoco sacro, ma per non averlo saputo usare: ora «scatenato» percorre i nuovi lidi.
Nella modernità, o come alcuni preferiscono, nella post-modernità, vediamo riaffiorare a macchia di leopardo una violenza antica che credevamo e speravamo sedata dalle leggi, dalla giustizia, tenuta a freno dagli equilibri del mercato, cioè da una «mano intelligente» che ci avrebbe salvato. Ma è proprio nel vuoto che la violenza ha creato nel tempo e recentemente sui nostri paesaggi, che si apre lo spazio travagliatissimo, sempre precario, di un riscatto che si fa strada nella storia. «Dove più forte è il pericolo, lì è anche ciò che salva». Dobbiamo crederci? Abbiamo con fatica cacciato i Leviatani, ci sono rimasti i principi giullari con i loro cortigiani. Creonte oggi è debole ma anche Antigone non scherza; la tragedia qui è senza catarsi, siamo noi i protagonisti. Non abbiamo più alibi. Al «principio di speranza» si deve sostituire quello di responsabilità. Il gesto di Adamo, che copre il proprio capo, contiene anche la storia di questo riscatto verso una libertà che sta sempre davanti.
Ora abbiamo paura. Paura di ciò che ci è straniero (il perturbante, Das Unheimliche, il senza casa), di ciò che ci circonda, della natura; paura dello «straniero che ci abita». Ci resta lIsola dei famosi, i miraggi dei Tropici, i mondi virtuali: man mano che il mondo si svela lo perdiamo. Ma la paura ci richiama allattenzione, alla saggezza, alla responsabilità verso noi stessi, verso il nostro corpo, verso ciò che lo circonda, verso gli altri: per noi architetti un po feticisti ma, credo, un
po per tutti, la casa, la spiaggia, i fiumi, il mare, sono il nostro corpo, non soltanto la sua metafora
poetica o le sue protesi. Il nostro corpo è paesaggio, res extensa, su cui si adagia la nostra res cogitans.
Io credo che labitare e il paesaggio, la casa, la città, sono qualche cosa che sta a monte di ogni politica, di ogni logos, ma anche di ogni divisione: implica koiné, rapporto difficile tra di noi, tra noi e le cose, tra le cose; e anche eudaimonia: vivere felici, insieme, nella polis, partage de lâme. Ma non si dà koiné senza scambio di culture. Contro la paura che ci circonda occorre coraggio. Ciò vuol dire anche andare oltre a quegli slogan che finora hanno funzionato: sono un grido disperato, che oggi ha esaurito, mi pare, il compito. Dobbiamo essere tutti un po più seri. I giornali, i critici, i media, hanno coniato parole ancora troppo generiche: «colata di cemento», «cementificazione» o anche «impatto», termine balistico che anche quando è zero nasconde più che chiarire. Riviste e giornali virtuosissimi, alle volte sono o troppo noiosi o troppo frivoli; dovrebbero smettere di osannare mostri e monumenti arroganti, carpofori velenosissimi (anche se «splendenti», «emozionanti») ma senza luoghi e paesaggi: il «gusto» è facile da corrompere.
Occorre koiné, ma anche philìa: amicizia verso i luoghi, soprattutto verso quelli che stanno soffrendo. Dobbiamo aver cura e raccogliere, prendere in mano ogni frammento di un mondo lacerato, (de)costruirlo, (ri)costruirlo, (ri)conoscerlo: réconnaissance, cioè essere riconoscenti. Per questo occorre metter in campo i propri saperi e le proprie esperienze, aggiornarli con il dubbio ma anche con il coraggio.
Ognuno di noi deve assumere il compito di essere genius loci, il che non è facile.
Nella philìa cè intreccio di esperienze e di azioni, dellamore e dellodio, di ciò che il mare e le riviere ci hanno dato e ora sembrano non darci più: per le terre a rischio da salvare per la loro bellezza.
Occorre anche esporsi, confrontare le singole esperienze. Mi sento quindi in dovere di accennare alle mie, alle nostre (Gabetti & Isola, Isolarchitetti) esperienze. Tentativi difficili, sofferti, ma sempre tesi a lasciare quei luoghi, che abbiamo lavventura di toccare, più lieti e sereni di prima: non abbiamo fatto monumenti allarchitettura, a noi stessi, a una modernità ormai prostituita. Non sono certo in grado dindicare metodi e ricette ma vorrei presentare un atteggiamento di dubbio, di apertura, di messa in gioco. Vorrei narrare i colloqui sempre aperti, anche se a volte duri, con i luoghi, con le geografie e le storie, e con quanti (soprintendenti, amministratori, operatori, abitanti, comitati ecc) hanno partecipato ai progetti, lavorando oltre i loro ruoli istituzionali, sovente con quella «volontà darte» che alberga in ognuno di noi e che oggi mi pare stia emergendo.
A Varazze abbiamo curvato le dighe di sopraflutto (prima previste rettilinee) in continuità con landamento della costa, radicandole, là dove cera una discarica, in un parco botanico. Un portico in legno verso mare, a monte alberi e arbusti ricoprono il costruito. I cantieri Orlando a Livorno racchiudevano tratti di mura medicee, che ora ritrovano la luce; mura antiche e nuove si affacciano su tratti di mare ora interrati. A Bocca dArno le pinete di San Rossore e del Tombolo sintrecciano, tra il mare e il fiume, con il reticolo urbano che continua sfrangiandosi con lesistente. A Sestri Levante, dove cerano capannoni dismessi, spostando lAurelia lungo la ferrovia, abbiamo aperto uno spazio per un grande parco che si prolunga nella montagna e ridisegna il fronte urbano. Ad Acciaroli stavamo lavorando al restauro del fronte a mare, quando la vita del sindaco coraggioso, Angelo Vassallo, è stata tragicamente interrotta a settembre.
Io credo che lindagine di Italia Nostra, sulle coste a rischio e su quelle da salvare, sia una parte di quella cura dei frammenti di questo nostro territorio lacerato dalla violenza della natura (le calamità), delle nostre «culture» (la speculazione scatenata), degli uomini (le guerre e la mafia). Occorre ora ridare ai luoghi ospitalità con un lavoro a volte radicale, a volte leggero, ma sempre attento; curare questo nostro corpo fatto di terra e di mare: il riscatto della e dalla natura non può più tardare. Se no sarebbe una Disdetta, come dice Caproni: «E ora che avevo cominciato/ a capire il paesaggio:/ Si scende dice il capotreno./ È finito il viaggio».
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