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La realtà sui giovani architetti

Tra le tante errate convinzioni che circolano sul mestiere dell’architetto, molte riguardano i più deboli e professionalmente indifesi, i giovani. Due, tra le più importanti, ne riguardano il fabbisogno da un lato e l’apprezzamento del mercato, dall’altro.
In questo anno di acri polemiche su obiettivi e contenuti della riforma universitaria in corso, per esempio, si è insistito – peraltro giustamente – sulla necessità di non far diminuire il tasso di popolazione che compie studi universitari. Spesso tuttavia senza distinguere tra esigenze di istruzione superiore, che sono una conquista sociale irrinunciabile, e sbocchi professionali, cui si dovrebbero invece seriamente relazionare gli ingressi dei giovani, facoltà per facoltà.
Ebbene, si continua a insistere sul presunto divario tra l’Italia e il resto dell’Europa a riguardo del rapporto, a noi sfavorevole, tra studenti in architettura e popolazione. Nulla di più falso. Il cresme, il più autorevole istituto di ricerca sull’edilizia, segnala che, nell’ultimo periodo rilevato (1999-2006), l’Italia vantava il primato assoluto, con uno studente ogni 470 abitanti. Per l’Unione Europea dei 15 la media era invece pari a uno ogni 1.550 abitanti. Tanto parrebbe bastare a indurre le Facoltà a ridurre sensibilmente (almeno di due terzi) le immatricolazioni. E invece il Ministero dell’Università comunica che, per il 2010, i posti disponibili finalizzati alla professione di architetto, offerti in Italia da ben 55 sedi diverse (facoltà di Architettura o di Ingegneria-Architettura) sono 9.265. Pur ammettendo che non tutti giungano alla laurea (una dispersione del 20-25% è da tenere comunque in conto), la restante parte costituirà una domanda aggiuntiva di prestazioni professionali che non potrà assolutamente essere soddisfatta, se è vero che sarà di entità pari ai laureati in architettura eccedentari secondo quanto riferisce l’Ufficio studi della stessa Confindustria.
Ancor più importante è far conoscere nelle sue reali dimensioni il precariato giovanile (e non solo) degli architetti. Le rilevazioni di Almalaurea, che ogni anno presenta un pregevolissimo rapporto sulla condizione occupazionale dei laureati, sembrano a questo proposito molto più incoraggianti di quanto gli Ordini, che sono i migliori osservatori del mercato, possano constatare.
Osservando i laureati in architettura pre-riforma (gli unici per i quali si abbiano dati a 3 e 5 anni dal conseguimento del titolo di studio), la cui permanenza in facoltà è stata mediamente di 10 anni (!) e il cui voto è stato mediamente superiore a 105/110 (!), fa specie scoprire che sono occupati rispettivamente per l’83% e l’89%, che abbiano trovato lavoro in appena 3-4 mesi dalla laurea e che tale lavoro sia stabile per il 73% e 84%. Guardando meglio, però, si scopre che tale è considerato l’esercizio professionale autonomo (lo svolge il 60-65% e tutti sanno quanto sia incerta e poco redditizia questa scelta per i giovani), che in gran parte (oltre il 90%) opera nel settore privato attraverso non meglio precisate «consulenze», tra le quali può rientrare ogni sorta di attività surrogatoria del vero mestiere dell’architetto. E lo stesso guadagno netto dichiarato (da 1.211 a 1.437 euro mensili, ma solo per i maschi, mentre con le femmine la media si abbassa 1.079 e 1.287 euro) pare un sogno irraggiungibile a molti architetti, che lamentano di percepire negli sudi professionali presso cui trovano saltuaria occupazione, compensi in nero di 5-6 euro l’ora, per anni.
Altro che soddisfazione professionale. Dunque, gli Ordini si facciano parte attiva, con il contributo (che non può che essere determinante) del Consiglio Nazionale, per compiere indagini e verifiche attente, in grado di mettere in luce inesattezze e contraddizioni. E poi, per divulgarne i risultati.
Quanti patimenti in meno potrebbero assicurare a chi aspira a progettare e finisce in un call center.

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Last modified: 13 Luglio 2015