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Concorsi, nonostante tutto

La marginalità, crescente, del ruolo dell’architetto in Italia rispetto ad altri contesti europei è sempre più evidente. Perché una simile situazione? Perché la qualità delle opere realizzate è scadente, la capacità propositiva dei professionisti si è affievolita, l’utilizzo del territorio è segnato da un profilo qualitativo inaccettabile…
Le norme sugli appalti, poi, hanno prodotto danni immensi: ancor oggi si lavora con proposte di modifiche a un testo in via di ridefinizione, peraltro non sufficienti a riparare i guasti prodotti, che per giunta si collocano in un quadro frammentario, secondo un comportamento che segue i problemi con risposte sempre inferiori alle istanze di cambiamento.
Nel sistema degli appalti pubblici i compiti e i ruoli dovrebbero infatti essere netti e separati. La pubblica amministrazione dovrebbe individuare le esigenze, sistematizzarle, definire il quadro dei requisiti da soddisfare, delineare gli strumenti amministrativi necessari e infine procedere all’attività di controllo; il progettista mettere al servizio degli interessi generali la propria esperienza e le proprie risorse tecniche e culturali; l’impresa realizzare le opere con una corretta applicazione dei mezzi produttivi.
Il Codice degli appalti crea invece un «cortocircuito» in questo sistema: perché il lavoro istruttorio viene condotto in modo sommario e tende ad approfondire i temi del progetto piuttosto che gli aspetti del problema, mentre il professionista ha una collocazione marginale, non esercita un «ruolo sociale» né esiste una lobby portatrice di valori e interessi positivi.
Il professionista non è più, insomma, una «risorsa». La deregolamentazione delle tariffe conduce inoltre a un abbassamento del livello qualitativo del lavoro e quindi a un prodotto dal valore o dai «ritorni economici» scarsi se non indecifrabili, e il contenuto culturale del progetto scompare.
Anche le imprese hanno le loro responsabilità. Intervengono profondamente nel processo progettuale con lo sviluppo degli esecutivi, muovendosi in una logica di stringente economia e proponendo l’utilizzo di tecnologie immutabili con la rinuncia a ogni ipotesi d’innovazione.
Ormai non è sufficiente un’azione volta solo a modificare il Codice degli appalti: debole è l’obiettivo e lunghi i tempi, così come sono scarsi i risultati ottenuti con battaglie a favore dei concorsi, che sono durate anni ma hanno conseguito tante opportunità virtuali e pochi contenuti reali. Eppure il percorso più vantaggioso, anche per le amministrazioni, resta sempre il concorso, che permette la scelta tra progetti e non tra progettisti e consente un’apertura ai giovani, e quindi di rinnovare la professione. Ma se la legge permette di accedere al concorso, non ne rende obbligatoria la scelta.
Il concorso, peraltro, appare elemento centrale per affrontare tanti altri temi: la formazione, le tariffe, gli aspetti deontologici, ecc.
Occorre semmai chiedersi perché, di fronte ai pochi concorsi finora banditi in Italia, spesso dotati di premi insufficienti, con tempi troppo contenuti, ci sia ancora una partecipazione numerosa: sicuramente perché è figlia delle gravi difficoltà del momento nel trovar lavoro!
Se è questa la situazione, non si può essere d’accordo con la proposta di rendere «dura» la posizione degli Ordini nei confronti di chi partecipa a quelli che sono stati giudicati «non validabili» e quindi diffidati.
Anche perché tante sono le motivazioni, talora condivisibili, dello scarso ricorso da parte degli amministratori al concorso, e soprattutto per opere che non siano marginali.
Una prima sta nella diffidenza dell’ente banditore nei confronti della platea dei concorrenti: la preferenza, di gran lunga, per il concorso a inviti si regge su una sorta di discriminazione, soprattutto verso i giovani, che trova le sue motivazioni anche nello scarso livello formativo delle nostre Facoltà.
Queste ultime hanno riproposto percorsi di studio in cui il numero, troppo alto, di corsi porta a disperdere le forze in discipline poco attente alla qualità. E tutto ciò induce a cercare forme di selezione meno rigorose, che attingano nel libero mercato senza troppe costrizioni, con bandi di dubbia legittimità. Ma un atteggiamento troppo autoritario
da parte degli Ordini finirebbe per punire i pochi volonterosi.
Poi c’è il fatto che chi punta sui concorsi si scontra subito con la mancanza di tecnici in grado di progettarne i contenuti e le procedure. Per supplirvi occorrerebbe avviare diffusamente, in tutta Italia, corsi formativi per tecnici programmatori (analogamente a quanto avviene in Francia) diplomandone un buon numero.
A Torino questo tentativo è stato fatto e, per facilitare la diffusione dello strumento, l’Ordine ha pubblicato un vero e proprio manuale per i programmatori. Ma ci sono comunque voluti sei anni per «lanciare» i concorsi a scala provinciale e, ad oggi, con i giovani che sono stati formati, ne vengono gestiti non più di 7-8 all’anno, registrando ancora «difficoltà» da parte delle amministrazioni a ricorrervi più estesamente, anche per l’opposizione dei rup, che nei concorsi vedono una riduzione del proprio potere decisionale.
E poi, non sempre i concorsi raccolgono i pareri favorevoli degli iscritti, che li ritengono spesso inaffidabili, costosi, poco chiari e – come spesso avviene – senza sbocco di incarico professionale.
Ecco perché diventa quanto mai opportuna una riformulazione delle procedure concorsuali. E si rendono necessarie, pur con tutte le difficoltà che ne potrebbero derivare, la rotazione dei concorrenti (il vincitore di un concorso non può partecipare a uno successivo bandito dallo stesso ente per un certo periodo); la differenzazione tra partecipanti anziani e partecipanti giovani, per i quali si può pensare a veri e propri corsi preparatori; la distinzione fra concorsi che richiedono basso impegno e attribuiscono compensi non elevati e quelli che prevedono una grande dedizione e conseguentemente devono contare su premi alti; forme di discussione pubblica del progetto con la giuria, eliminando l’assurdo anonimato dei concorrenti.
Infine, è indispensabile prevedere, fin nel bando, la continuità del percorso progettuale in capo al medesimo professionista, in modo da non interrompere la catena progettuale. Perché ogni soluzione della continuità del progetto spinge verso un basso livello qualitativo dell’opera che si intende realizzare.
Agli Ordini (riuniti) tocca saper mostrare la capacità di costituire un tavolo autorevole con le amministrazioni, per definire quali «lavori» e quali «tipologie» richiedano il ricorso al concorso: insomma, di costituire un «patto virtuoso». Agli amministratori si richiede di compiere un’operazione preliminare indispensabile: sapere e volere definire, nei programmi triennali, la quota di opere da porre a concorso e il loro giusto ammontare.

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Last modified: 17 Luglio 2015