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Gli Ordini rinnovano i propri Consigli


Questo mese i professionisti italiani sono chiamati a rieleggere i propri Consigli, secondo le nuove procedure introdotte dal Dpr 169/2005. Per tutti,e non solo per gli architetti, sono passati altri quattro anni nella vana attesa di una riforma dell’ordinamento (oggi tanto più necessaria quanto maggiori sono stati gli effetti della crisi che ha investito le professioni liberali) mai realizzata, n o n ostante una lunga serie di tentativi, infruttuosi e addebitabili a tutti i governi che si sono succeduti da almeno quindici anni, di varare una legge in grado di rispondere alle esigenze di un mercato che chiede ai progettisti sempre di più e sollecita,quindi, strutture e strategie che li sostengano nella loro attività, in continua evoluzione. Neppure alle pecche del Regolamento elettorale è stato posto rimedio: basti pensare all’insensatezza dei tre turni di votazione, senza la possibilità di conservare i voti di volta in volta espressi (e consentire così il raggiungimento di un quorum significativo), o l’obbligo di riservare un posto in Consiglio al rappresentante dei laureati junior, che costituiscono ancora oggi una percentuale irrisoria degli architetti italiani.
Queste saranno inoltre elezioni in cui prenderà avvio, per la prima volta, lo svecchiamento dei Consigli. Il limite dei due mandati consecutivi scatterà per tutti coloro che si ricandidano e verranno rieletti e porterà quindi, nelle elezioni del 2013, all’uscita di quanti hanno raggiunto tale limite, magari dopo una permanenza ultradecennale negli organi di rappresentanza della categoria. I giovani giustamente premono per un avvicendamento,mortificati nelle loro aspirazioni professionali dall’assoluta mancanza d’interesse delle forze politiche verso le loro sempre più difficili condizioni di lavoro: procedure di affidamento degli incarichi pubblici che li escludono spietatamente, concorsi di progettazione non praticati, tariffe minime abolite, nessun accesso al credito agevolato, concorrenza indecorosa (spesso in spregio alla deontologia), in particolare da parte di società di progettazione pubbliche o delle stesse Università, che fanno la parte del leone, con gli Ordini che ai loro occhi sembrano inerti.
Il ricambio fine a se stesso non è tuttavia per niente desiderabile: tante buone esperienze si sono compiute da parte di Consigli degli Ordini che, pur lasciati soli, hanno puntato molto sul potenziamento dei servizi offerti agli iscritti e sulla crescita dei mezzi di conoscenza approntati,per fornire formazione, aggiornamento e informazione puntuale. Naturalmente, ciò è riuscito soprattutto ai grandi Ordini, che possono contare su bilanci più sostanziosi,personale più numeroso ed efficiente, rapporti più frequenti e facili con gli enti pubblici e partecipazione più numerosa degli iscritti. Per gli altri, invece, una vita spesso grama, nonostante tanti sforzi per fare uscire gli Ordini dalla pura osservanza del compito istituzionale, che li vorrebbe ancora oggi solo tenutari dell’albo o organi di vigilanza sul comportamento degli iscritti.
Il risultato è che molti guardano ai modelli stranieri, dove gli Ordini sono sostituiti da associazioni in cui si entra in base alla propria libera scelta, ma anche al gradimento dei gruppi dirigenti. Ma in un paese come il nostro, così dilaniato da battaglie ideologiche, sarebbe uno sbaglio enorme imitarli: nascerebbero tante associazioni in conflitto tra loro, e finirebbero per prevalere interessi lobbistici. Meglio stringersi insieme, favorendo il potenziamento delle strutture federative regionali e accentuando l’azione di pressione, a tutti i livelli di governo, per giungere a una riforma degli Ordini realistica. A questo compito si è appassionatamente dedicato, per più di un decennio e con una dedizione mai vista prima, Raffaele Sirica, il presidente del Consiglio Nazionale da poco mancato. La speranza è che la sua scomparsa non riduca l’impegno dello stesso Consiglio, nell’ultimo anno della sua permanenza in carica (nel 2010 si concluderà anche il suo mandato). I problemi da affrontare sono tanti, a partire da un serio confronto con l’Università, anch’essa afflitta da molte angustie, per concordare un processo formativo adeguato alle esigenze di un mercato turbolento e non regolamentato, in cui la domanda di architetti è ormai satura. E soprattutto per dar vita ad auspicabili forme di collaborazione volte ad assicurare la nascita della formazione continua dei professionisti, che, in cambio, chiedono il ritorno a una dignitosa remunerazione, garantita per legge e non sottoposta alle improbabili capacità dello stesso mercato di riequilibrarsi. In caso contrario, si assisterà alla morte della professione di architetto e, in ultima analisi, al diffondersi incontrollato della «città senza qualità».

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Last modified: 18 Luglio 2015