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Mario SpadaScritto da: Forum Reviews

I territori che vogliamo: tra geografia e beni comuni

I territori che vogliamo: tra geografia e beni comuni
Due letture extra-disciplinari mettono la qualità della vita al centro di un dibattito necessario per il nostro paese. Senza retoriche e facili etichette

 

La conoscenza della geografia e una gestione strategica attenta ai territori, unite ad un’accorta valutazione di tutte le risorse locali che si possono attivare attraverso le politiche pubbliche, sono la ricetta per sperimentare forme di gestione collaborativa orientate a fare sistema. Due libri si interrogano su città, beni comuni e gestione strategica dei territori mettendo al primo posto l’uomo e la qualità della vita.

Succede spesso che l’attività di un pubblico funzionario di alto livello sia stretta in una morsa che vede da un lato la sorda inerzia burocratica e dall’altro le scelte politiche del Ministro di riferimento, non sempre condivise. Giovanni Vetritto, alto funzionario dello Stato, non si è fatto imprigionare nella morsa e ha cercato di interpretare la professione pubblica ancorandola ad una costante attività di studio e ricerca finalizzata a una più efficace funzione amministrativa. Concettualizzare il fare, dare senso progettuale all’attività quotidiana, immaginare il meglio, con un impegno intellettuale che mai si esprime senza aver consultato “il cuore e la pancia, la passione e l’istinto”, come afferma l’autore nella sua presentazione.

Il libro, con il titolo “Per l’Agorà. Scritti sulla questione urbana e territoriale 2008-2024” (Rubbetino Editore, 2025, 306 pagine, 19 €) che richiama il luogo nel quale si esercitavano nella Grecia antica le prime forme di democrazia, è composto da interventi, articoli, saggi che documentano un lavoro di 15 anni di intensa attività amministrativa, nel corso dei quali, l’autore ha spaziato in diversi campi professionali convinto che le politiche pubbliche abbiano bisogno non di specialisti, ma di competenze interdisciplinari in grado di comprendere la complessità ed agire nei suoi  meandri.  

“Per l’Agorà” si apre ricordando il lavoro e gli studi di Elinor Ostrom, raccolti nel libro “Governare i beni collettivi” di cui Vetritto è stato con Francesco Velo il curatore dell’edizione italiana pubblicato nel 2006, prima che alla Ostrom venisse assegnato il premio Nobel. Immaginiamo che la cura del libro abbia rafforzato un’inclinazione già presente nell’autore, a favore di un metodo di lavoro sperimentale come quello adottato dalla Ostrom, la quale illustra con dovizia di particolari come alcune comunità, la cui esistenza dipende da risorse locali, come terre di pascolo o bacini di pesca, gestiscono collettivamente un bene comune che non è classificabile come pubblico né come privato.

Alcune esperienze di gestione collettiva hanno mantenuto una testimonianza, come nel caso degli usi civici, altre son state annientate violentemente per far posto all’accumulazione capitalistica, come in Inghilterra con l’esproprio violento da parte dei landlords, autorizzati dalla legge del 1662, o in Sardegna con la legge delle chiudende del 1822 che introdusse, di forza, la proprietà privata riconoscendola a chi avesse delimitato un’area con recinti di pietra. Per Vetritto il contributo della Ostrom rappresenta una pietra miliare nell’ottica dello sgretolamento della grande dicotomia tra pubblico e privato che imprigiona la pubblica amministrazione in una concezione di “pubblico” ridotta a conformità normativa fine a sé stessa. È necessario scoprire e sperimentare nuove forme di gestione collaborativa orientate a fare sistema, condividere l’azione con gli stakeholder, con il privato sociale, come indicato dalla sentenza della Corte costituzionale 131/2020 che dichiara “gli Enti del Terzo Settore sono quindi in grado di mettere a disposizione dell’ente pubblico sia preziosi dati informativi sia un’importante capacità organizzativa e di intervento”.   

Una buona amministrazione sperimenta, procede per tentativi, valorizza e diffonde le buone pratiche, agisce secondo un modello orizzontale anziché dirigista, verticale. È necessario abbandonare il dogma del binomio stato-mercato per costruire pratiche pubbliche flessibili, condivise, adeguate ad intervenire in una realtà complessa, in rapidissima mutazione. I commons sono generalmente legati al territorio e in un corposo saggio, Vetritto affronta il tema dell’urbanistica rivelando una sorprendente competenza specifica che gli deriva da una consolidata attitudine multidisciplinare.

Denuncia la consuetudine dirigista presente in larga misura negli organi di governo del territorio: “un dirigismo giacobino da rimuovere per fare posto a una concezione deliberativa di matrice liberale”. In tutti gli interventi emerge la fede, rivendicata orgogliosamente, nel pensiero liberale, da decenni scomparso dalle cronache politiche, soffocato da una politica dal pensiero corto, di scarso respiro strategico. La pianificazione centralizzata dirigista è una camicia di forza, la complessità urbana si può affrontare solo con un’organizzazione reticolare e cooperativa che deve relazionarsi con tutta una serie di altre pianificazioni di settore; perciò, i riferimenti normativi devono essere coerenti e organici. A differenza di altri Paesi europei in Italia non si è voluto istituire un Ministero per le aree urbane se non per una breve stagione.

La mancanza di coordinamento degli enti nazionali si riflette specularmente sul territorio nella struttura delle amministrazioni locali: la rigida corrispondenza tra assessorati e rappresentanza politica accentua le difficoltà di coordinamento, dando luogo a rivendicazioni di competenze o gelosa difesa di posizioni acquisite. Molto spazio è dedicato alla legge Del Rio sul sistema delle autonomie locali e alla peculiarità del nostro territorio. La marginalità può non essere una diseconomia bensì un’opportunità di sviluppo se si procede ad aggregare i piccoli comuni che condividono le strategie disegnando nuovi assetti di efficienza alle diverse scale di intervento. Le grandi città, a loro volta, sono da tempo intese come poli di sviluppo con elevati gradi di autonomia. Gli ultimi interventi sono dedicati al rapporto tra pubblica amministrazione e digitalizzazione delle procedure amministrative.  Anche su questo argomento Vetritto mostra una straordinaria competenza e immaginazione progettuale.

È abbastanza comune intraprendere la lettura di un libro che si presenta come una collazione di articoli e interventi guardando l’indice per cominciare da ciò che più interessa. Un’occhiata preliminare all’indice induce a leggerlo secondo la priorità data dall’autore. La sequenza logica, l’organicità delle argomentazioni, la solidità delle convinzioni etiche e professionali fanno di questo libro un tutto organico, non una somma di parti ma un tutto che unisce pratica e teoria, particolare e generale, conoscenza dei fatti e immaginazione strategica, argomentazione logica e passione civile.

 

La rivincita della geografia come strumento sociale

La geografia, dimenticata, sminuita, che ha perso gran parte della sua popolarità, che non è presa in considerazione nella progettazione territoriale, è il tema di “Il potere dei luoghi. La rivincita della geografia per capire la società” (di Marco Percoco, EGEA, 2025, 144 pagine, 16 €) un “libretto”, come lo definisce l’autore, di poche pagine ma denso di argomenti. 

Diverse generazioni di allievi hanno frequentato aule scolastiche nelle quali c’erano mappe geografiche appese alle pareti e la geografia era autorevolmente presente nei programmi scolastici. Ma da molto tempo la geografia ha perso peso e visibilità sociale soprattutto per la pervasività delle pratiche digitali ed è scarsamente considerata nella definizione delle politiche territoriali. Ciò è accaduto in controtendenza con la ricerca storiografica che ha invece visto emergere una scuola di storici che intrecciano mirabilmente economia e geografia, come Fernand Braudel che assegna alla configurazione fisica dei luoghi un valore primario per comprendere gli eventi storici. Paradigmatici i titoli di alcuni capitoli  del  primo libro di “Civiltà e Imperi del Mediterraneo all’epoca di Filippo II”:  penisole, montagne, altipiani, pianure, mari e litorali, isole, il Sahara e così via.                                                                                                                                                                                                                                     

Il bersaglio principale dell’autore, docente di economia all’università Bocconi, è la cosiddetta “teoria dell’equilibrio economico spaziale”, che si fonda, spiega, sul principio dell’indifferenza dei luoghi da parte degli individui che sarebbero disposti a spostarsi dai paesi d’origine esclusivamente per motivi economici, ovvero il salario e il costo delle case. Teoria che presuppone l’equivalenza dei luoghi, come se il mondo fosse una piatta uniforme pianura. La geografia, chiarisce Percoco, ci insegna che ogni luogo ha la sua propria configurazione fisica, è ricco o privo di risorse naturali, ha sedimentato o meno tradizioni culturali e sociali, esprime o meno senso di appartenenza ad una comunità. Quindi lo sviluppo dei territori non può basarsi esclusivamente sulla mobilità delle popolazioni da un luogo all’altro secondo le migliori condizioni economiche. Ne sono prova, nel nostro Paese, le epocali migrazioni dal sud al nord che hanno accentuato lo squilibrio economico tra le regioni. 

L’autore indica l’Italia come un formidabile laboratorio per comprendere quanto conti la geografia per lo sviluppo economico del Paese, nel quale spicca per rilevanza la “questione meridionale”, tema presente da centinaia di anni, oggetto di interventi che partivano dalla convinzione che la soluzione non fosse l’emigrazione bensì il riconoscimento della varia natura geografica dell’economia nazionale. Ad esempio, si cita la legge speciale per Napoli (1904), la legge per la Sila (1904), l’istituzione della Cassa per il mezzogiorno (1950), pur con tutti i suoi limiti. 

Antonio Gramsci è ricordato per il suo originale contributo alla comprensione delle tensioni tra nord e sud, tra zone urbane e rurali. In un breve originale scritto dal titolo “Alcuni temi della questione meridionale”, l’autore sviluppa il concetto di “egemonia” del nord che da “culturale “diventa” territoriale”. È esplicitamente “meridionalista” la riflessione di Marco Percoco, anche lui emigrato a Milano da un piccolo paese della Lucania, testimone dell’impoverimento dei paesi del Sud, che ricevono rimesse dagli immigrati che non impediscono la devitalizzazione delle capacità di sviluppo endogeno. Un fenomeno interessante, sottolinea, fu registrato durante la stagione del Covid: numerosi emigrati al Nord sfruttarono l’opportunità offerta dallo smart working per tornare nei paesi di origine con lo scopo di individuare possibili fonti di sviluppo locale.

In ogni paese del mondo i fenomeni migratori dalle aree periferiche e rurali verso le città hanno generato una silenziosa desertificazione demografica di vaste aree spesso definite, in maniera fuorviante secondo l’autore, “aree interne”. Centrale la questione delle politiche di sviluppo del Sud, che hanno privilegiato grandi insediamenti produttivi che generalmente non hanno prodotto i vantaggi auspicati per varie ragioni: le sedimentazioni storiche e culturali di luoghi a carattere rurale nei quali è prevalsa la propensione al fatalismo come raccontato da Ernesto de Martino; la scarsità di cultura dell’impresa, che coniuga intuito, propensione al rischio e capacità organizzative; la difficoltà a creare le cosiddette “economie di agglomerazione”, cioè un sistema  di imprese simili che fruiscono dei vantaggi della vicinanza fisica, come nei distretti industriali italiani o nella celebrata Silicon Valley americana; la propensione a una gestione cooperativa delle attività economiche come nei casi  di gestione  collaborativa esaminati da Eleanor Ostrom. In altri termini la propensione allo sviluppo non può prescindere dalla storia e dalle consuetudini di una comunità, ovvero dal cosiddetto “capitale sociale”.

Un capitolo narra le città, che nascono imitando la natura, per difendersi dai predatori e sfruttare i benefici derivanti dalla divisione del lavoro e dalla densità delle relazioni. Ma le massicce migrazioni a cui assistiamo generano, in mancanza di abitazioni, slum, sprawl urbano e periferie degradate. Una dispersione sociale che non produce benessere a causa della difficoltà nel produrre rapporti personali duraturi. Alcune pagine del libro sono dedicate al pensiero di Francesco Saverio Nitti, che l’autore apprezza in modo particolare. 

A conclusione di un percorso che cerca di interpretare la realtà mettendo al primo posto l’uomo e la qualità della vita, l’autore sostiene che la geografia può contribuire ad una gestione strategica dei territori, ad un’attenta valutazione di tutte le risorse locali che ogni territorio può attivare, alla sperimentazione di forme di gestione collaborativa orientate a “fare sistema”. Una conclusione nella quale è rintracciabile uno stretto legame con il pensiero di Giovanni Vetritto nel suo “Per l’agorà”, testo sulle politiche urbane e territoriali. “Il potere dei luoghi”, un piccolo agile e prezioso libro, una scrittura chiara, un approccio interdisciplinare, una visione ampiamente condivisibile.

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Tag: , , , , , , Last modified: 23 Dicembre 2025