Riceviamo e pubblichiamo una riflessione critica sollecitata dall’articolo di Carlo Olmo. A proposito di parole, slogan e narrazioni contemporanee
Carlo Olmo nella sua opportuna e necessaria riflessione sulla “insostenibilità della sostenibilità” cita il progetto di Neom Line come prova dello svuotamento di significato di questo termine, eppure nel documento ufficiale della società Webuild, coinvolta nella sua costruzione, questa città lineare viene descritta come “modello per una vita urbana all’insegna della sostenibilità e della migliore vivibilità”. Questa affermazione retorica, atta a giustificare la partecipazione a un progetto (oggi ridimensionato) che potremmo definire geopoliticamente sanguinario (viste le esecuzioni di alcuni oppositori accusati di terrorismo) e socialmente selettivo, conferma l’affermazione della giornalista brasiliana Eliane Brum la quale, riferendosi al pensatore brasiliano di origine indigena Ailton Krenak, sostiene che la sostenibilità è in fondo un concetto del capitalismo. Un “termine impiegato da chi ritiene possibile uscire dall’abisso senza rinunciare al sistema capitalistico che ci ha portato sull’orlo dell’abisso” (citazione in “Amazzonia. Viaggio al centro del mondo”, Sellerio, 2023).
Tutto può proseguire come prima, anche nel consolidamento delle disuguaglianze, perché è sufficiente un po’ di cosmesi necessaria per edulcorare i messaggi, conquistando i consumatori. Il dibattito sul significato retorico della parola sostenibilità era emerso da tempo in diversi autori. Giorgio Nebbia nel 1999 proponeva di abolirla, ricordandoci che quando i sindaci promettono città sostenibili o turismo sostenibile, ci prendono in giro; Mark Fisher, dal canto suo, afferma che il capitalismo è contrario a qualsiasi nozione di sostenibilità.
Stiamo parlando di una delle categorie sulle quali si è discusso a lungo in questi decenni, ponendo sul tavolo una quantità di significati e declinazioni non sempre coerenti tra loro, anzi spesso in conflitto. Diviene pertanto necessario precisarne l’uso in relazione a contesto, tempo, economia, cultura e visione.
Tecnica e responsabilità
Analoga cosa potremmo dire del dibattito sul futuro delle città, delle parole chiave che utilizziamo per descriverla e dunque sul come porci nei confronti della crisi climatica in corso. Certamente si tratta di un termine che è stato molto enfatizzato, in particolare nei suoi aspetti tecnici. La tecnica, secondo Emanuele Severino, è una forma di razionalità (“Tecnica e architettura”, Mimesis, 2021): la più alta raggiunta dall’uomo. Appartiene alla struttura essenziale del capitalismo che ha subordinato ad essa le altre manifestazioni della civiltà occidentale, ma spesso attraverso la tecnologia si dà una risposta ai problemi del mondo senza chiedersi il perché delle cause (politiche, economiche e sociali) che li hanno generati.
Si segnalano i bisogni senza parlare di diritti, ci si impegna umanitariamente nel contrasto alla povertà tacendo sul problema politico delle disuguaglianze. Vengono propagandate soluzioni che non trovano riscontro nella complessità sociale della città, del pianeta e dei processi che li riguardano.
Le ricerche che ho condotto in questi ultimi anni sulle retoriche comunicative nel mondo dell’architettura e dell’urbanistica (“Le fragole di Londra. Attraverso le città disuguali”, Mimesis, 2025) mi hanno consolidato la convinzione che il primo passo verso l’insostenibilità è quando non vengono riconosciute le responsabilità dei processi che stanno determinando la mutazione climatica in corso e il crescente divario globale in termini di diseguaglianze.
Definire che oggi siamo nell’era geologica dell’Antropocene descrivendone gli effetti e attribuendone le cause all’umanità non è di per se sostenibile perché le responsabilità non sono le stesse. Come diceva don Lorenzo Milani, non c’è nulla di più ingiusto che fare parti uguali tra diseguali. La deforestazione, l’emissione di CO2, la distruzione della biodiversità non sono attribuibili all’essere umano cattivo che non rispetta la natura ma a chi (il capitalismo con i suoi protagonisti) ha di fatto trasformato il mondo in una miniera da sfruttare, come sostiene Günther Anders.
Il pianeta, ancora oggi, ospita circa 5.000 comunità che si rapportano alle risorse naturali in termini di valore di uso, ovvero le usano per vivere non per venderle e ricavarne profitto. Come possono queste comunità essere responsabili della crisi ambientale che stiamo vivendo?
Città e bene comune
La sostenibilità diviene quindi una narrazione delle aziende capitalistiche per conquistare i consumatori, indotti a consumare ciò che è prodotto in maniera sostenibile, ma si tratta spesso di una bugia. L’acqua di una fonte è molto buona, una grande azienda in regola con i requisiti di sostenibilità la imbottiglia e la commercializza dall’altra parte del mondo: siamo di fronte a un processo sostenibile?
Le nuove smart ecocity, proposte in questi anni, con grande enfasi, da parte di grandi società finanziarie sia in Africa che in Asia, sono accompagnate da processi di mediatizzazione eco-orientata che hanno ormai invaso anche i consessi internazionali come le COP. Si tratta di mondi urbani futuribili dichiarati sostenibili nei documenti ufficiali, ma spesso sono costruiti con proventi della vendita di petrolio e gas, sono costruiti grazie al lavoro dei nuovi schiavi che sono gli immigrati dai paesi più poveri, e soprattutto non modificano le condizioni reali di vita della grande parte degli inurbati che continuano a vivere in condizioni di miseria estrema. Nusantara, New Cairo, Konza Thecnopolis sono eco città sostenibili (come dichiarato nei documenti ufficiali) o sono delle forme di neocolonialismo finanziario che rafforzeranno la selettività tra ricchi e poveri? La sostenibilità è costruire nuove eco-città nei deserti o nelle foreste o migliorare le città esistenti partendo dalle situazioni abitative più critiche?
La città ecologica e sostenibile neoliberista è indifferente ai contesti politici: che siano democratici o autoritari non interessa agli investitori, cambiano solo le modalità di relazione. La sua presunta sostenibilità (di prodotto non di sistema) si fonda sul dominio di una tecnica che sarà selettiva, perché non accessibile a tutti, per tale motivo questa sostenibilità, retoricamente enfatizzata, potrebbe essere l’anticamera dell’autoritarismo se non si sarà in grado di rafforzare forme di democrazia comunitaria in grado di trasformare la sostenibilità da parola retorica a bene comune in grado di rendere il quotidiano un laboratorio di pratiche in grado di associare ecologia e diritti.
Immagine di copertina: render del progetto (https://www.neom.com/en-us)
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eco-critica , linguaggio , politica , sostenibilità , vocabolario
Last modified: 18 Novembre 2025






















