C’è incoerenza e disallineamento tra il percorso universitario e il sistema ordinistico: un rinnovamento è sempre più urgente. La posizione di Annalisa Metta, presidentessa di IASLA
Venticinque anni fa, il 20 ottobre 2000, su iniziativa del Consiglio d’Europa, i rappresentanti di 19 paesi membri dell’UE, tra cui l’Italia, si ritrovavano a Firenze per sottoscrivere la Convenzione Europea del Paesaggio, il trattato che li avrebbe impegnati ad attenzione e responsabilità sul paesaggio, sia attivandosi all’interno del proprio territorio – con strumenti legislativi e attuativi – sia attraverso la cooperazione internazionale. L’Italia ratificava la CEP 6 anni dopo, con l’emanazione della legge 14 del 9 gennaio 2006. Tra la fine del 2025 e l’avvio del 2026, stiamo perciò attraversando due ricorrenze importanti: un quarto di secolo dalla sottoscrizione e il ventennale dalla ratifica.
Venticinque anni dopo la Convenzione, un’attuazione lacunosa
Nel mentre, molti ambiti del sapere – dalla conservazione dei beni culturali alla pianificazione urbanistica, dall’economia territoriale all’antropologia, passando per il restauro e l‘archeologia, l’ecologia e le scienze agroforestali – hanno prodotto abbondante letteratura su come e quanto il trattato abbia contribuito ad aggiornare il significato del paesaggio nella cultura italiana, ognuno leggendo variamente la CEP per le proprie finalità. Dal suo canto, l’architettura del paesaggio ne ha offerto interpretazioni orientate al progetto, come da proprio mandato.
Il tema dell’attuazione è cruciale, perché, una volta ratificato, il trattato si è trasformato, da dichiarazione di impegno in obbligo di legge; detto altrimenti, i principi, gli obiettivi e gli strumenti della CEP devono essere perseguiti e adoperati; con la ratifica, l’adesione non è più un auspicio, è un dovere legale, un vincolo giuridico all’adempienza.
Sono molti i contenuti della CEP su cui sarebbe urgente soffermarsi per verificarne l’attuazione; tra questi, promuovere “la formazione di specialisti nel settore della conoscenza e dell’intervento sui paesaggi” (articolo 6b della legge 14/2006). Negli anni, questo obbligo di legge si è tradotto anche nel rafforzamento e nella istituzione ministeriale di corsi di laurea che in Italia danno accesso al titolo di paesaggista, la cui prima formulazione si deve al DM 509/1999, con la classe di laurea 3/S “Architettura del paesaggio”, e ora corrispondenti alla laurea magistrale LM-3 “Architettura del paesaggio”, istituita dal DM 270/2004.
Per l’anno accademico 2025/2026 ne sono attivi 7, alcuni di lunga tradizione, altri di istituzione recente, in 10 sedi universitarie, di cui alcune consorziate (Politecnici di Milano e Torino, Università di Camerino, Firenze, Genova, Milano Statale, Palermo, Roma Sapienza, Torino, Tuscia).
Il corso di laurea LM-3 è e regolamentato dal DM 1649/2023, che specifica le competenze dei laureati e delle laureate e i conseguenti sbocchi professionali: “la progettazione di parchi, giardini e spazi esterni, pubblici e privati, di luoghi di relazione che caratterizzano e strutturano contesti urbani, periurbani ed extra-urbani, alle varie scale di intervento; la conservazione attiva, la gestione, il restauro, la riqualificazione e riorganizzazione paesaggistica, funzionale di parchi e giardini storici, di spazi aperti esistenti, di risorse ambientali e storico-culturali e di siti storici e archeologici, ad esclusione delle componenti edilizie; la pianificazione paesaggistica e la progettazione dei sistemi territoriali d’area vasta; la riqualificazione del paesaggio, anche con riferimento ad aree dismesse e degradate; la progettazione paesaggistica di opere e reti infrastrutturali ed energetiche, anche con riferimento a infrastrutture ecologiche, sistemi ambientali, di itinerari e percorsi; l’analisi e la valutazione paesaggistica e gli studi di impatto ambientale”.
Di fatto, in un decreto dello Stato, si afferma che i paesaggisti hanno competenza sul progetto della quasi totalità degli spazi aperti, come del resto accade, e da molto più tempo, nella maggior parte degli altri Paesi europei.
Formazione VS professione: un cortocircuito
In Italia, per l’esercizio della libera professione di paesaggista è necessaria l’iscrizione a un albo professionale. Con il DPR 328/2001, l’Ordine degli architetti ha assunto la nuova, corrente, denominazione di Ordine degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori, allineandosi con quanto accadeva nello scenario internazionale europeo e rispondendo alla effettiva evoluzione del mondo professionale.
Tuttavia, si è trattato di un esercizio di nominazione con ricadute operative minime, giacché ad oggi “formano oggetto dell’attività professionale degli iscritti nella sezione A settore paesaggistica: a) la progettazione e la direzione relative a giardini e parchi; b) la redazione di piani paesistici; c) il restauro di parchi e giardini storici”. Così regolamentato l’ambito occupazionale del paesaggista è estremamente ridotto rispetto a quanto descritto nella declaratoria contenuta nel Decreto del 2023, che assegna un campo di lavoro esteso ben oltre i soli giardini e parchi, di nuovo impianto o da restaurare, e i soli piani paesistici. Questo disallineamento costituisce un vulnus regolamentare del sistema legislativo italiano, con due decreti che si contraddicono e prescrivono cose diverse, e costituisce un serio ostacolo all’esercizio della professione.
Il Ministero dell’Università certifica sbocchi professionali che sono disattesi dal sistema ordinistico e oggi un paesaggista laureato in Italia, iscritto all’OAPPC, può esercitare la propria competenza in un ambito professionale estremamente ridotto rispetto all’ampiezza del campo di applicazione delle conoscenze e abilità cui è stato formato. Si tratta di una grave discrepanza tra quanto previsto dalle leggi che regolamentano da una parte la formazione universitaria e dall’altra la pratica professionale, cui è urgente porre rimedio, allineando le competenze esercitabili dal paesaggista – con laurea nella classe LM-3 ed esame di stato nella sezione di pertinenza – con quanto contenuto nella declaratoria del corso di laurea.
Albo e sezioni: qualcosa non funziona
Ulteriori elementi dimostrano il carattere difettoso dell’attuale regolamentazione della professione. Il medesimo DPR 328 stabilisce, infatti, che per accedere alle diverse sezioni dell’OAPPC è necessario superare distinte prove di esame di stato, opportunamente declinato in base alle diverse competenze da accreditare (architetto, paesaggista, pianificatore e conservatore), cui si può accedere in virtù del titolo di studio conseguito: per ognuno, vi è una prova d’esame specifica per una altrettanto specifica competenza settoriale. Tuttavia, se si supera l’esame di stato come architetto, cui si può accedere avendo conseguito una laurea LM-4 Architettura e ingegneria edile-architettura, ecco che, invece, si possono svolgere anche tutte le altre professioni. Ciò significa che, per effetto di un automatismo, un architetto è anche un paesaggista, è anche un pianificatore, è anche un conservatore.
L’incongruenza salta agli occhi: la formazione di uno solo dei 4 profili professionali è in grado di coprire la specificità di tutti gli altri tre, insieme, e a parità di durata del percorso formativo; quindi, un paesaggista, un pianificatore e un conservatore impiegano ciascuno due anni per acquisire le competenze specifiche del loro mestiere, mentre un architetto, nello stesso lasso temporale biennale, acquisisce contemporaneamente tutte le loro competenze, oltre alla propria. Inoltre, un architetto può esercitare la professione di paesaggista senza alcuna limitazione; anzi, l’architetto può operare su una casistica di spazi aperti più ampia, comprensiva di parchi, giardini, piani paesistici e di qualunque altro genere di spazio aperto, il cui progetto è invece inspiegabilmente precluso al paesaggista.
Eppure, il già richiamato DM 1649/2023 per il corso di studi LM-4 non prevede alcun obbligo di formazione in architettura del paesaggio, che vi compare come materia affine, opzionale, non fondamentale: in altre parole, un laureato in quella classe che non abbia maturato un solo credito formativo in architettura del paesaggio e che abbia superato l’esame di stato nella sezione architetto, oggi può fare il paesaggista a pieno titolo.
È purtroppo una situazione di lungo corso, che sconta i mancati allineamenti progressivi tra sistema universitario e sistema ordinistico, e che permane nonostante sia stata più volte sottoposta all’attenzione della comunità scientifica e del legislatore (tra i contributi recenti, “La formazione dell’architetto del paesaggio in Italia”).
La riforma, occasione da non perdere
Mentre si ricorda l’anniversario della CEP è in corso in Parlamento la discussione sul Disegno di Legge in materia di Delega al Governo per la riforma della disciplina degli ordinamenti professionali, nel cui testo si legge della necessità di: “armonizzare e modernizzare le discipline vigenti rispetto alle profonde trasformazioni del contesto socioeconomico, normativo e tecnologico intervenute negli ultimi decenni”, e di riformare una stratificazione normativa che “riflette momenti storici ed esigenze regolatorie profondamente diversi da quelli attuali, determinando significative criticità nell’esercizio delle attività professionali”, mirando alla “valorizzazione del ruolo e della funzione delle specifiche professionalità alla luce dei nuovi contesti sociali ed economici e delle nuove esigenze del mercato delle professioni, al fine di rendere tali professioni non solo più attuali e competitive, ma anche capaci di aumentare la propensione dei giovani laureati verso la libera professione”.
L’auspicio è che la revisione ordinistica possa produrre finalmente un indifferibile allineamento tra formazione e professione e che la ricorrenza dell’anniversario della sottoscrizione della Convenzione Europea del Paesaggio possa fare da doveroso promemoria.
Immagine di copertina: formazione sul tema del paesaggio, Politecnico di Milano
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Last modified: 12 Novembre 2025






















