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Ilaria La CorteWritten by: Progetti

Ri_visitati. L’utopia di Terni: partecipata e incompiuta

Ri_visitati. L’utopia di Terni: partecipata e incompiuta
Il Villaggio Matteotti, costruito (ma solo in minima parte rispetto al programma originale) tra 1969 e 1975, è una delle espressioni più emblematiche del pensiero di Giancarlo De Carlo e della sua architettura tra società e politica

 

In occasione del 20° anniversario dalla morte di Giancarlo De Carlo (1919-2005) Il Giornale dell’Architettura e archphoto hanno organizzato, con la curatela di Ilaria La Corte ed Emanuele Piccardo, un evento di confronto e dibattito a Urbino, ospiti della Fondazione Ca’ RomaninoGrazie anche alla partecipazione di Marco De Michelis, Gianluca Annibali, Andrea Canziani, Francesca Gasparetto, Andrea Vergano e Michele Roda, l’incontro ha permesso di indagare senso e attualità dell’eredità, culturale e progettuale, di De Carlo. Ma anche di costruire una sorta di osservatorio delle sue architetture più note e significative, che proponiamo come un itinerario critico e orientato a descrivere lo stato di conservazione e di mantenimento. 

 

TERNI (Umbria). Nel panorama dell’architettura italiana del secondo dopoguerra, il Villaggio Matteotti rappresenta un caso emblematico, a metà fra progetto urbano, esperimento politico e sogno collettivo di rinnovamento sociale

 

Il contesto

Alla fine degli anni Sessanta, la Terni, azienda pubblica del settore siderurgico, affrontava un difficile processo di riconversione produttiva. Il quartiere Italo Balbo – costruito negli anni Trenta per ospitare gli operai e ribattezzato, nel primo dopoguerra, Giacomo Matteotti – versava in uno stato di forte degrado con edifici cadenti, carenza di servizi e assenza di spazi pubblici.

La direzione, guidata da Gian Lupo Osti, intuì che la qualità dell’abitare poteva diventare parte integrante delle politiche industriali e sociali, e affidò a Giancarlo De Carlo, affiancato dal sociologo Domenico De Masi, il compito di ripensare radicalmente l’insediamento.

De Carlo trasformò quella che poteva essere un’operazione convenzionale in una riflessione sul ruolo dell’architettura nella costruzione di una comunità. Rovesciando la logica paternalistica dei quartieri aziendali tradizionali, concepì il progetto non solo come un intervento architettonico, ma come un esperimento politico e sociale, dando forma a un processo partecipativo senza precedenti in cui gli abitanti non erano semplici destinatari, ma interlocutori del processo progettuale.

Il metodo – fatto di incontri, assemblee, questionari e discussioni – anticipava una concezione dialogica dell’architettura, capace non solo di far emergere i bisogni reali degli abitanti, ma soprattutto di instaurare un rapporto inedito tra architetto e cittadini. Per De Carlo, la partecipazione non era un esercizio retorico, ma una nuova metodologia progettuale: “Non si tratta di chiedere alle persone cosa vogliono, ma di aiutarle a capire cosa possono volere”.

Il passato

Il progetto del nuovo villaggio, pensato per circa mille famiglie, si basava su una maglia tridimensionale di piastre sovrapposte, con una chiara separazione tra percorsi pedonali e carrabili.

La continuità tra spazi privati, semi-pubblici e pubblici delineava un modello urbano orizzontale e poroso, dove gli edifici a due o tre piani si intrecciavano con rampe, cortili e giardini. Le 15 tipologie abitative, declinate in più varianti, si adattavano alle diverse composizioni familiari, ed erano tutte dotate di spazi esterni privati – giardini, terrazze, logge – in equilibrio con le aree comuni.

Il principio ordinatore era la continuità spaziale: nessuna barriera netta tra pubblico e privato, ma una sequenza di soglie. Le passerelle pedonali sopraelevate, che collegano le abitazioni, erano pensate come luoghi di incontro in cui la socialità potesse svilupparsi spontaneamente. Anche i materiali riflettevano questa logica di onestà e concretezza: calcestruzzo a vista, tamponamenti modulari, superfici rugose capaci di invecchiare insieme agli abitanti.

L’impianto urbano era concepito come una città nella città: autonoma ma permeabile, densa e allo stesso tempo accessibile, in cui il verde e le aree comuni diventavano parte integrante della struttura abitativa. I lavori si fermarono nel 1975, quando la crisi economica e i tagli ai finanziamenti pubblici impedirono il completamento del piano originario: fu realizzato solo un quarto degli alloggi previsti, così come rimasero incompiute le attrezzature pubbliche che avrebbero dovuto garantire la piena autonomia del quartiere.

Negli anni successivi il Villaggio Matteotti divenne un simbolo per la cultura architettonica italiana e internazionale, considerato la prova più alta dell’impegno civile di De Carlo, dimostrando che il valore più duraturo non risiedeva nella forma compiuta, ma nel processo che l’aveva generata.

Il presente e il futuro

A più di 50 anni di distanza, il Villaggio Matteotti è un organismo ancora vivo. Le strutture mostrano i segni del tempo, ma la maglia spaziale immaginata da De Carlo resta chiara e leggibile.

Le passerelle e i cortili funzionano ancora come spazi di relazione, la vegetazione cresciuta liberamente negli anni ha trasformato il quartiere in un piccolo ecosistema urbano, dando corpo a quella città giardino che De Carlo aveva immaginato nei suoi disegni. L’assenza di interventi invasivi ha consentito di mantenere l’autenticità dell’impianto originario. Gli alloggi hanno subito piccoli adattamenti – chiusure, ampliamenti, modifiche funzionali – ma senza compromettere l’armonia complessiva.

Nel corso degli anni, il tessuto sociale si è in parte rinnovato: ai lavoratori delle acciaierie si sono affiancati giovani famiglie, immigrati, pensionati, studenti. Questa varietà sociale dimostra la capacità del progetto di accogliere cambiamenti e nuovi modi di abitare senza perdere coerenza. Le funzioni collettive previste in origine non si sono mai pienamente realizzate: alcuni spazi pubblici e le attività commerciali non sono mai entrati in funzione, e alcune passerelle sono oggi in evidente stato di degrado.

Recentemente è tornato al centro di un interesse crescente. Il Comune di Terni e alcuni enti locali hanno avviato studi per la tutela e la valorizzazione del quartiere, riconoscendone il valore non solo architettonico ma culturale: un patrimonio materiale e immateriale fatto di spazi, storie e relazioni.

Ma la rigenerazione materiale non basta, occorre una rigenerazione culturale, capace di riattivare il principio originario di partecipazione. Guardare oggi al Villaggio Matteotti significa interrogarsi su ciò che resta della visione di De Carlo e su come questa possa ancora orientare il dibattito contemporaneo sull’abitare. L’esperimento ternano non fu un semplice tentativo di progettazione partecipata, ma la proposta di un nuovo rapporto tra architettura e società, in cui il progetto non si esaurisce nella forma costruita ma diventa processo di apprendimento reciproco.

La lezione che ne emerge è duplice. Da un lato, dimostra che la qualità dello spazio pubblico è decisiva per la coesione sociale, dall’altro, rivela i limiti delle utopie moderne, quando queste non sono accompagnate da una continuità gestionale e una adeguata manutenzione nel tempo. L’architettura partecipata non può sopravvivere se non diventa pratica istituzionale, se non si rinnova con le comunità che la abitano.

Oggi, mentre il dibattito sul futuro dell’abitare torna centrale, tra rigenerazione urbana ed emergenze abitative, il Villaggio Matteotti appare straordinariamente attuale. Le sue terrazze e i percorsi pensili invitano ancora a pensare la città come rete di relazioni, non come somma di edifici. Ripensarlo significa dunque recuperare una dimensione politica dell’architettura: non solo costruire spazi, ma disegnare relazioni.

De Carlo non ha lasciato un modello da replicare, ma un metodo, una testimonianza concreta della ricerca di un’utopia abitata. In questo senso, il Villaggio Matteotti non è un monumento del passato, ma una soglia verso il futuro: un luogo che insegna che l’architettura può unire, ascoltare e cambiare la società.

Immagine di copertina: Giancarlo De Carlo, Villaggio Matteotti, Terni (© Emanuele Piccardo)

Autore

  • Ilaria La Corte

    Dopo la laurea in Architettura all’Università di Roma Tre, prosegue la sua formazione professionale in Portogallo, dove vive e lavora. Dal 2017 svolge attività di ricerca come dottoranda presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Porto (FAUP), in co-tutela con lo IUAV di Venezia, con una tesi dedicata al dibattito architettonico internazionale tra gli anni Cinquanta e Settanta, analizzato attraverso le opere di Giancarlo De Carlo e Nuno Portas. Ha collaborato alle attività didattiche del Politecnico di Milano e attualmente svolge ricerca presso il CIAUD – Centro de Investigação em Arquitetura, Urbanismo e Design, della Facoltà di Architettura dell'Università di Lisbona.

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Last modified: 14 Ottobre 2025