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Josephine BuzzoneWritten by: Professione e Formazione

Yoshio Taniguchi (1937-2024)

Yoshio Taniguchi (1937-2024)
La scomparsa di Yoshio Taniguchi anticipa di pochi giorni quella di Hiroshi Hara, due figure chiave della cultura moderna giapponese

 

Una devozione per la pratica progettuale, che ha combinato la sensibilità della cultura architettonica giapponese con i valori permanenti del Moderno, ha contraddistinto la carriera di Yoshio Taniguchi, scomparso lo scorso 16 dicembre.

 

Tra minimalismo e artigianalità

Lontano dalle attenzioni pubbliche, Taniguchi, ha perseguito un’architettura incentrata sui suoi elementi fondamentali – materiali, luce, colori e proporzioni – modellando un minimalismo raffinato, dove la sinergia tra spazio esterno e interno si realizza in complessi sottili e lineari, leggeri e fluidi. 

La sua attitudine artigianale – come l’ha definita Fumihiko Maki (1928 – 2024) – lo spingeva a limitarsi a non più di due progetti contemporaneamente, accettando solo incarichi nei quali avesse il pieno controllo su ogni aspetto del processo, dall’edificio al paesaggio, dai dettagli alla grafica.

 

Dalla laurea (in ingegneria) ai premi più prestigiosi

Formatosi come ingegnere meccanico alla Keio University, l’interesse per l’architettura di Taniguchi nasce nel 1960, partecipando alle conversazioni intellettuali con il padre – Yoshirō Taniguchi (1904-1979), affermato architetto – e si consolida negli Stati Uniti, dove completa gli studi alla Harvard University GSD. 

Qui sviluppa una connessione diretta con Walter Gropius, suo docente e con il quale collabora brevemente. Dopo la laurea (1964) e fino al 1972, Taniguchi continua la sua formazione professionale con l’architetto e urbanista Kenzo Tange (1913-2005). Conclusa l’esperienza come insegnante all’University of Cape Town (Sud Africa) e alla UCLA, nel 1975 fonda il proprio studio, Taniguchi and Associates, a Tokyo.

Taniguchi è stato membro onorario dell’American Institute of Architects, del Royal Institute of British Architects e del Japan Institute of Architects. Tra i numerosi riconoscimenti, figurano il Praemium Imperiale (2005), il Piranesi Prix de Rome (2016) e due edizioni del Togo Murano Award (1994 e 2020).

 

Progetti sapienti e misurati

Le sue opere, in prevalenza museali e realizzate in Giappone, sono il manifesto del suo rigore professionale: “Non ho figli, quindi considero ogni opera architettonica che ho progettato come un figlio che devo accudire”. 

Architetture che, radicate nei principi modernisti, si arricchiscono con l’uso sapiente dei materiali (vetro, metallo, piastrelle e pietra) e la declinazione di elementi tipici dell’architettura nipponica, creando un linguaggio atemporale. Strutture che sostengono senza mai sopraffare la funzione, in cui l’utente è accolto in ambienti che, pur mantenendo una condizione di apertura, custodiscono una dimensione protetta e intima.

Il Kasai Rinkai Visitors’ Center (Tokyo, 1992) e il Toyota Municipal Museum of Art (1995) sono interpretazioni raffinate di questo approccio, in cui forme, materiali, colori e texture sono combinati secondo il concetto di Za (座) – il luogo che integra elementi eterogenei, sia fisici che simbolici, all’interno e all’esterno di un dominio. 

Nel Kasai Rinkai Visitors’ Center, la parete vetrata, con la sua sottile struttura in acciaio, amplifica la percezione del paesaggio circostante e riflette il movimento umano, dissolvendo i confini tra l’interno e l’esterno. Le facciate vetrate, abbinate ai porticati, accentuano la leggerezza della costruzione e modulano l’illuminazione e l’areazione naturale, che definiscono l’esperienza sensoriale. 

Il Museo Toyota si presenta come un prisma che si integra delicatamente con lo sfondo del cielo, emergendo progressivamente lungo il percorso. L’uso del vetro traslucido, abbinato al metallo e all’ardesia verde scuro del Vermont, crea una tensione visiva e sensoriale tra apertura e intimità. La luce naturale, anche qui, diventa uno strumento di modellazione delle gallerie, incanalata attraverso ampie vetrate verticali e lucernari.  

 

A New York firma l’ampliamento del MOMA

Sebbene Taniguchi sia stato il primo architetto giapponese della generazione del dopoguerra a ricevere una formazione all’estero, la sua opera internazionale è limitata, con il suo contributo più noto nell’ampliamento del Museum of Modern Art (MOMA) di New York (1997), incarico ottenuto grazie alla vittoria del suo primo concorso, superando colleghi di fama mondiale.

Completato nel 2004, l’intervento si distingue per un approccio che privilegia il contenuto pur rispettando il contenitore: “Fondamentalmente, l’architettura è un contenitore per contenere cose. Spero che le persone apprezzino il tè, non la tazza”.

Taniguchi ha valorizzato il percorso espositivo con passaggi che stimolano l’esperienza visiva, creando angolazioni che invitano i visitatori a scoprire le opere. L’aggiunta dell’ampio atrio centrale stabilisce una nuova relazione tra l’interno e l’esterno, potenziando l’identità del museo. I nuovi volumi, con le facciate in granito nero sulla 54esima Strada, invece uniscono l’edificio al contesto circostante con un’espressione architettonica coerente.

Riservato nel suo pensiero, Yoshio Taniguchi si è sottratto deliberatamente alle discussioni pubbliche sull’architettura. Le sue numerose opere, di conseguenza, rappresentano la prevalente espressione di una ricerca progettuale rigorosa, tra ingegneria ed estetica, ancorata a una matrice modernista, ma sempre permeata da una profonda sensibilità verso la propria cultura e tradizione.

Immagine di copertina: Yoshio Taniguchi (© Junya Inagak). Altre immagini: Kasai Rinkai Visitors’ Center, Museo Toyota, Moma

 

Hiroshi Hara (1936-2025)

Al momento di pubblicare questo articolo, giunge la notizia della scomparsa dell’architetto-polimata, avvenuta il 3 gennaio. Dottore in ingegneria all’Università di Tokyo, Hara divenne professore emerito dopo una lunga carriera accademica. Sebbene la sua attività sia stata prevalentemente in Giappone, opere come l’Umeda Sky Building (Osaka, 1993), la Stazione di Kyoto (1997) e il Sapporo Dome (1998-2001) sono conosciute anche all’estero. Il suo stile, che ha unito minimalismo, tradizione giapponese e influenze moderniste e postmoderne, si è espresso nella semplicità, nell’armonia con l’ambiente, nell’uso di forme geometriche, ma anche nella monumentalità e in un forte accento sull’innovazione tecnologica. Nel suo laboratorio si sono formati gli architetti Riken Yamamoto e Kengo Kuma, che spesso ricordano i viaggi con il maestro, soprattutto in Asia e Africa, esperienze che hanno profondamente influenzato la loro formazione. Il suo approccio educativo si è basato sull’importanza di espandere i metodi di apprendimento, incoraggiando gli studenti ad apprendere dal mondo esterno oltre la classe, continuando a ispirare le generazioni di architetti ed educatori che sono emerse dopo di lui.

 

 

Autore

  • Josephine Buzzone

    Dottoranda in Architettura, Storia e Progetto presso il Politecnico di Torino, dove ha conseguito la laurea magistrale in Architettura per il Restauro e Valorizzazione del Patrimonio. La sua ricerca indaga la storia e le trasformazioni dell'architettura del dopoguerra in Giappone, con particolare attenzione ai processi di valorizzazione del patrimonio. Vive tra Italia e Giappone, dove ha trascorso un periodo come Visiting Research Associate presso l'Institute of Industrial Science dell'Università di Tokyo

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Last modified: 8 Gennaio 2025