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Michela MorganteWritten by: Città e Territorio

Troppe moschee? Blocchiamole (anche) con l’urbanistica

Troppe moschee? Blocchiamole (anche) con l’urbanistica

In vista di un provvedimento di legge che rappresenterebbe un ulteriore ostacolo, lo stato dell’arte in Italia: committenze, progetti, dispute, pretesti, priorità

Quando la moschea incontra l’urbanistica

Lo scorso aprile il deputato di Fratelli d’Italia Tommaso Foti ha raccolto l’approvazione della Camera ad un disegno di legge volto a ostacolare i cambi di destinazione d’uso nelle sedi del Terzo settore. Figlio di un testo precedente bocciato nel 2021, il provvedimento disciplinerà in modo più restrittivo le opere sui locali degli enti no profit, con implicito ma inequivocabile riferimento ai centri di cultura islamica e alle attività costruttive connesse ai relativi luoghi di culto. In attesa del prevedibile passaggio al Senato, vale la pena levare una voce sul ricorso a motivazioni “tecniche” attraverso cui la politica nazionale tenta, non da oggi, di legittimare un disegno di chiara marca discriminatoria verso la seconda fede professata nel Paese (dato Cesnur 2023). Eccepire su un piano apparentemente neutro, appellandosi a valori legalitari come il rispetto delle normative urbanistiche e igienico-edilizie è atto insidioso, verso cui sono state sollevate obiezioni di ordine giuridico sin dall’epoca delle prime leggi regionali “anti-moschee”, in Lombardia e Veneto. Ma forse anche la classe tecnica dovrebbe pronunciarsi sulla cortina fumogena alzata dai sovranisti di casa nostra, per l’utilizzo strumentale di categorie proprie della professione. 

 

Troppe moschee?

Su suolo italico se ne contano una manciata riconosciute come tali. Le prime realizzate in ordine di tempo sono state quella di Catania (1980), finanziata da Gheddafi e già dismessa dal 1990, poi quella di Milano Segrate (1987-88), un tempio islamico ricavato in edificio sconsacrato a Palermo (1990) e il famoso complesso a Roma concepito da Paolo Portoghesi e Vittorio Gigliotti, realizzato dopo lunghissimo iter (1975-95). Più recenti, la moschea di Ravenna (disegnata dall’architetto Basel Ahmed, 2013) e quella di Colle Val d’Elsa (Siena), su progetto del tarantino Danilo Raccuja (2006-13). Da ultimo, l’adattamento al culto di un prefabbricato commerciale ad Albenga (2013), e la moschea di Forlì, frutto di un maquillage più creativo su un precedente capannone agricolo, opera dell’architetto Pier Francesco Padovano (2014-17). Da un decennio, nessuna nuova realizzazione, nonostante il numero crescente dei fedeli di Allah, solo il cambio di destinazione d’uso concesso dopo anni all’anonimo fabbricato industriale che ospita il centro islamico di Piacenza.

La materia del disegno di legge citato in apertura viene rubricata da Teseo, il sistema bibliotecario degli atti parlamentari, come “urbanistica”. E non a caso il controllo sulle ristrutturazioni delle sedi associative sarà in capo al Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti. Ma è da un ventennio che le amministrazioni locali (specialmente, ma non in via esclusiva, di destra) esercitano un’opposizione serrata a questi spazi, giocata a colpi di “assetto della viabilità”, “accesso ai locali”, “norme di aerazione”.

Ai parametri edilizi i detrattori associano sui media formule pseudo-tecniche di pubblico gradimento, appellandosi alla “vivibilità dei quartieri” e invocando di converso una fantomatica “rigenerazione urbana” per agitare gli animi nei comitati in zona. L’idea vincente, in questa azione di veto, è quella di scaricare sulla complicata macchina della gestione del territorio questioni che andrebbero mediate in sede politica tra i diversi portatori d’interessi – e al solo scopo di trascinare per decenni le istruttorie autorizzative. 

Committenza, compravendita e burocrazia col casco

Peraltro, le associazioni islamiche si sono dimostrate nel tempo attori capaci di dipanare le trafile procedurali, di rapportarsi alle autorità competenti, oltre che dotati di una certa capacità di spesa. Hanno visioni localizzative proprie, non sempre scontate: da dieci anni il coordinatore del gruppo bolognese esprime una chiara preferenza verso un assetto policentrico degli spazi di preghiera e aggregazione. Non caldeggia, cioè, il modello della grande moschea urbana, che giudica poco adatto alla dispersione insediativa dei propri accoliti. Una svolta, rispetto al progetto di Leonardo Celestra (2007), prima lanciato e poi ritirato, senza troppe spiegazioni, dall’allora sindaco Sergio Cofferati. 

Gli accordi di compravendita procedono di norma spediti, nell’arena del mercato fondiario, investendo donazioni frutto di crowd funding tra i seguaci, e talvolta grossi finanziamenti esteri non sempre trasparenti (la controversa Qatar Charity Foundation avrebbe finanziato le moschee di Ravenna e Colle Val d’Elsa). I proprietari di suoli urbani, spesso grandi società immobiliari extra locali, sono ben disponibili alla cessione di aree degradate e immobili in declino; poco interessa se l’intervento riguarda una sede di cultura musulmana. Trattano direttamente con gli imam, raggiungono accordi come il rent to buy tentato al grattacielo di Rimini.

Poi, al livello superiore, quello istituzionale, si scatena un ginepraio. Battaglie in punta di diritto fra ente locale, Soprintendenza, TAR, Consiglio di Stato, Corte Costituzionale. E i progetti si arenano per decenni.

 

Storie di cupole e minareti che fanno girare la testa

Contro

i piani di nuove moschee e centri di cultura araba si sono visti chiamati in causa anche aspetti compositivi, e tirato in ballo il corretto inserimento paesaggistico all’interno del tessuto urbano. Quale incomprensibile fragilità culturale nasconda l’opposizione intransigente verso simboli religiosi altrui nello spazio pubblico delle nostre città non è dato sapere. Perché la minaccia costituita dall’inserimento del famigerato profilo a cupolaminareti risulta – si converrà – risibile, negli skyline nostrani ovunque costellati di campanili cristiani. 

C’è d’altronde motivo di credere che le operazioni “mimetiche” attuate in passato, ovvero il riuso di chiese storiche sconsacrate da parte di confessioni per qualcuno imparentate sempre e comunque al fondamentalismo, farebbero oggi gridare alla islamizzazione forzata della Penisola (mentre è uso abbastanza abituale all’estero). Eppure, è già stato fatto nella citata moschea di Palermo, ricavata dall’architetto Salvo Lo Nardo dalla cinquecentesca chiesa di San Paolino dei giardinieri, e in seguito anche ad Agrigento, con l’ex chiesa evangelica (2015). 

 

Un’impresa spericolata, subito cassata

A Genova, sulle colline del Lagaccio, nel 2012 il progettista Claudio Timossi sembrava sul punto di costruire un volume modernista in cemento e vetro, affiancato da una torre per il canto del muezzin alta sedici metri, con tanto di mezza luna a coronamento (qui il progetto). Un’impresa spericolata sotto più punti di vista, in un paese refrattario alla sperimentazione formale almeno quanto alla convivenza interreligiosa, e di fatto puntualmente congelata al momento della ratifica consiliare.

 

Quando serve, siamo tutti architetti

In qualche caso le scelte architettoniche sono state negoziatelaicamente” fino a reciproca soddisfazione delle parti. Si veda, ai tempi, la discussione tra la commissione edilizia ravennate presieduta dal docente di composizione architettonica all’Università di Bologna Giorgio Praderio e il citato Ahmed, progettista e portavoce della comunità richiedente.

Ma più spesso ci s’incaglia in imbarazzanti minuzie di dettaglio formale. E gli indesiderati templi vengono spinti alle estreme propaggini delle frange metropolitane, fra officine, centri commerciali e concessionarie d’auto. Da qui l’esigenza di adottare Varianti urbanistiche, e il ricorso strumentale al rimpallo delle decisioni. A meno di avere assunto come parte integrante degli strumenti urbanistici generali la mappatura dei luoghi di culto esistenti, come hanno fatto Bologna e Milano. 

Ma neppure nel caso della dibattuta moschea da impiantare nel capoluogo lombardo, sul sito dei vecchi bagni di via Esterle, è valsa la prudenza del progettista, un giordano da lungo tempo integrato, Ambrogino d’oro 2009. Un altro architetto-imam, Asfa Mahmoud, ha proposto di realizzare un edificio basso, senza minareti, e in stile “non-arabeggiante”. Il procedimento si è ugualmente incagliato, nella dotazione di parcheggi imposta dalla normativa regionale, pari al doppio della superficie adibita al culto. Risultato: il cantiere sembra rinviato a data da destinarsi, prolungando condizioni di affollamento e precarietà – queste sì – potenzialmente foriere di situazioni a rischio.

Tutto tace, frenando l’emersione delle pratiche di culto, anche a Mestre, dove esiste l’ipotesi di un centro di preghiera sul sedime di un’ex falegnameria prossima alla stazione. L’istanza, che avrebbe l’effetto di risanare un’area di degrado e spaccio, proviene dalla comunità bengalese, parte di una realtà locale – afferma il portavoce – di 40.000 musulmani su 250.000 residenti. L’edificio dovrebbe ricalcare la tipologia islamica canonica (ma il render pubblicato sul “Corriere del Veneto” lo scorso 4 maggio sembra ancora un po’ generico), “contestualizzata” con il ricorso al vetro di Murano per la decorazione di facciata. Minuzie, appunto. 

 

Il calcio sì che è sacrosanto!

Quella delle nuove moschee è la solita storia all’italiana di esclusione e diritti costituzionali negati, di problemi reali lasciati perennemente irrisolti, di proteste dal basso cavalcate con cinismo da una certa stampa, del cronicizzarsi di soluzioni di ripiego che alimentano – in modo circolare – malumori diffusi e bacini potenziali di scontro. In un paese dove un diffuso sentimento secolarizzato ci spinge nel quotidiano a ignorare l’esistenza dei campanili, le esigenze di gruppi minoritari vengono messe in diretta competizione con l’intoccabile culto nazional-popolare del calcio. Così a Pisa, nel 2017, la promozione della squadra cittadina in serie B spinse all’esproprio di un’area inizialmente concessa. Perché la priorità di utilità pubblica era quella di riqualificare lo stadio.

Immagine di copertina: Paolo Portoghesi e Vittorio Gigliotti, moschea e centro culturale islamico a Roma

 

Autore

  • Michela Morgante

    Architetta, dottore di ricerca in Urbanistica, si occupa di storia urbana contemporanea. Ha insegnato “Storia della città e del territorio” e “Storia del paesaggio italiano” presso Conservazione dei Beni Culturali a Ravenna. Tra i temi indagati, in saggi su riviste e monografie: la tutela storico-artistica nella pianificazione delle città italiane tra Otto e Novecento, le dinamiche edilizie della ricostruzione post-bellica, l’infrastrutturazione del territorio per il governo delle acque, le politiche territoriali di area vasta. Le pubblicazioni più recenti riguardano la rappresentazione delle città d’arte italiane bombardate durante la Seconda guerra mondiale, in chiave di propaganda. Collabora con "Il Giornale dell'Architettura" dal 2004

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Last modified: 15 Novembre 2024