Pensare la ricostruzione durante conflitti in corso: il punto sulle iniziative – soprattutto italiane – e gli approcci
Molti si chiedono se abbia senso parlare di ricostruzione a conflitto ancora pienamente in corso. Un nutrito fronte di esperti sostiene di sì, tenendo conto della fisionomia delle guerre contemporanee, a macchia di leopardo, con alternarsi di recrudescenze e pacificazioni parziali. Wendy Pullan, direttrice del Centre for Urban Conflicts di Cambridge, lo sostiene da anni. Nelle aree instabili non esiste una vera “fine di conflitto”, ma un cessare (ovviamente sperato) degli atti di violenza conclamata. Lo ribadisce anche in Architecture after war: a reader, raccolta di saggi a cura dell’architetto Bohdan Kryzhanovsky e dell’organizzazione ucraino-olandese CANactions (Edizioni Mack, 2024, pp. 256, euro 25).
Nutrire la speranza
Il confronto anticipato sul dopo che metta al centro la componente creativa umana tende a riequilibrare un discorso pubblico schiacciato sui numeri (perdite, danni, costi, armamenti). E soprattutto avrebbe il compito di sostenere, con immagini di un futuro possibile, gli sforzi di sopravvivenza delle comunità sotto attacco. Dare un senso di scopo condiviso, nutrire la speranza, offrire simboli collettivi di determinazione: si cita l’esigenza espressa da chi ha vissuto l’assedio di Sarajevo.
Per quanto paradossale o frivola la prefigurazione spaziale possa sembrare in questa fase di emergenza umanitaria, storicamente si è sempre fatta: durante la seconda guerra mondiale gli urbanisti inglesi e tedeschi si sono attivati, ognuno per il proprio Paese, sotto le bombe. Altra cosa sono i tempi della ricostruzione (sottolinea Gruia Badescu nel citato volume), che devono essere sufficientemente brevi per fronteggiare i bisogni ingenerati dalla devastazione ma anche abbastanza lunghi da consentire l’elaborazione del trauma collettivo. Come non è stato fatto con la rimozione generale operata sulle città tedesche (da cui la spiazzante contro-proposta dell’architetto americano Lebbeus Woods per l’ex Jugoslavia pacificata: nuove strutture aggrappate agli edifici dilaniati).
Naturalmente, in un conflitto con tante ambiguità come quello scatenato in Ucraina, la tempistica è solo uno dei tanti interrogativi controversi. Anche perché, dall’ultima ricognizione sullo stato dell’arte in queste pagine fioccano i documenti di visione, i concorsi a premi, le iniziative progettuali di soggetti disparati.
L’impegno italiano per Irpin, Kharkiv e Mykolaiv
Le guerre, da sempre, sono ribalte di visibilità foriere di ghiotte occasioni economiche, politiche e professionali. Solo per la città di Irpin, dove per intenderci si sta già promuovendo il turismo dall’estero, sono censibili in rete: un protocollo d’intesa della Municipalità con l’Università IUAV (già arenato, a detta degli stessi interessati), un piano strategico di visione che ha coinvolto anche lo studio Boeri e Green Building Council Italia, un piano decennale di ricostruzione prodotto dalla stessa Innovation Reconstruction Society.
Al G7 di giugno i grandi decisori internazionali hanno dovuto inevitabilmente pronunciare una parola sui due fronti militari alle porte dell’Europa – a bordo piscina, nel contesto vernacolare del resort pugliese che li ospitava. Fra le varie ed eventuali, era in programma una replica della mostra itinerante “Design for Peace” del CNAPPC con l’Ordine di Roma, esito di un workshop, finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, quando nel 2022 cinque architetti under 35 provenienti dai territori colpiti sono stati inseriti in altrettanti studi in varie zone d’Italia (Verona, Reggio Emilia, Roma, Napoli, la provincia di Bari). Si è voluto così rinsaldare i ranghi della comunità internazionale degli architetti lavorando simbolicamente insieme sulla riparazione delle città bombardate. Come si evince dal catalogo, le aree di progetto, individuate dall’Ambasciata d’Ucraina in Italia, coincidevano essenzialmente con attrezzature collettive urbane, disastrate e no. Con l’idea – largamente condivisibile – di rinforzare contesti fisici di prossimità positivi per l’interazione sociale nel quotidiano, come contributo di coesione alle popolazioni segnate dal conflitto.
Tre casi-studio erano localizzati nella contesa città di frontiera di Kharkiv, ciclicamente ripresa e di nuovo sotto attacco: l’Università pedagogica nazionale (della quale andrà ricostruito il nucleo) pensata come un polo d’innovazione didattica capace d’irraggiare il contesto circostante; il restyling per il Dipartimento dello sport all’Università tecnica nazionale, che gioca su un rimodernamento dell’immagine, ma anche strutturale; la Facoltà di Economia dell’Università nazionale Karazin, con l’ipotesi di ripristinare com’era dov’era il corpo di fabbrica storico, importante tassello dello scenario urbano, introducendo nuovi elementi di attrattività come una piazza pubblica coperta, una terrazza pubblica, un auditorium. Le altre due esercitazioni riguardavano l’ex palazzo sovietico della cultura Korabel’nyi a Mykolayiv, e il complesso del liceo comunale n.2 di Korosten, entrambi ripensati come luoghi comunitari, aperti anche alla cittadinanza. Al di là dei dignitosi risultati raggiunti, vanno certamente difesi il gesto di accoglienza verso i colleghi rifugiati, il tentativo d’internazionalizzare le competenze dei nostri e la serietà di un ragionamento “come se”. La fattibilità dei progetti è stata concretamente sondata attraverso rilievi dello stato di fatto (talora però impossibili), interviste ai committenti reali, saggi sulla disponibilità delle imprese in loco e degli specialisti in campo ingegneristico-tecnologico.
Giustamente, per sua ragione sociale, il CNAPCC porta avanti la tesi che l’engagement sia connaturato al mestiere progettuale, perciò stesso mestiere intrinsecamente “di pace”, di servizio al benessere delle popolazioni – a dire il vero, nei fatti, la realtà si mostra come sempre più cinica e complessa. Un piccolo indizio di scaltrezza professionale è ravvisabile, per esempio, quando tra le pagine dei documenti di progetto ricorrono formule buone per tutte le stagioni: resilienza urbana, sostenibilità, implementazione olistica, rigenerazione, innovazione.
Nel caso del “Concept masterplan” di Mykolaiv a queste parole d’ordine si aggiunge un forte alone manageriale. Quanto meno riduttivo, rispetto alle delicate questioni di comunità implicate dal tema, e però non inatteso, posto che le guerre – si sa – aprono nuove aree di business. Il piano per la città fluviale prossima al Mar Nero è stato consegnato alla Municipalità da One Works a giugno. La società ingegneristica milanese – uffici a Venezia, Roma, Londra e Dubai, core business nel real estate & strutture aeroportuali – ha lavorato pro bono alla fase di analisi, da dicembre 2022, su mandato di sedici agenzie ONU impegnate per il futuro delle città ucraine. L’iniziativa è stata finanziata dalla maggiore agenzia di sviluppo e cooperazione internazionale tedesca (GIZ – Deutsche Gesellschaft für Internationale Zusammenarbeit): uno scenario di ricostruzione di stampo marcatamente “esogeno”. Il focus – almeno per Mykolaiv – risulta largamente improntato al riordino/potenziamento infrastrutturale: solo per quest’ambito, la Facoltà di economia di Kiev ha quantificato danni bellici per 852 milioni di euro. Per risollevare il polo della cantieristica navale ucraina, facendone una capitale moderna della blue economy, si sono individuati quattro obiettivi: restituire il waterfront alla comunità, potenziare l’offerta turistica, sviluppare distretti produttivo-tecnologici, promuovere quartieri sostenibili a usi misti. Le localizzazioni d’intervento – punto non secondario – solo parzialmente risultano sovrapponibili alla mappa dei danni bellici.
L’immancabile studio LAND di Andreas Kipar ha predisposto un reticolo verde di corridoi ecologici a innervare la città esistente e gli sviluppi sulla carta. La ripartenza, però, dovrebbe avvenire al traino di cinque progetti-pilota, secondo la metodologia operativa internazionale detta build back better (ripresa anche dalla Foster Foundation per la ricostruzione di Kharkiv). Tra i punti finora messi a fuoco da One Works troviamo un nuovo parco industriale da 185 ettari, con strutture integrate di logistica avanzata e incubazione d’impresa high-tech, e l’Aquaport Marina, riconversione di 5 ettari di vecchi cantieri navali recuperabili ad uso sport e tempo libero.
In buona sostanza, nella migliore delle ipotesi, il piano demanda all’efficienza dello spazio fisico l’attrattività futura per gli investimenti, l’occupazione e la crescita economica. L’immagine architettonica prospettata in questa fase ricalca la retorica illusoria, onnipresente nei render circolanti, di ambienti urbani ariosi, pieni di luce e giustamente animati dalla presenza di giovani dinamici. In realtà, è difficile prevederne le ricadute, dato che il coinvolgimento della comunità locale è stato condotto per lo più da remoto, tramite sondaggi su piattaforma a stakeholder soprattutto economici, nonché simulazioni di realtà aumentata – con tecnologie del Politecnico di Milano – per testare le reazioni degli utenti ai nuovi scenari fisici.
La riflessione accademica (polemiche incluse)
Dal pragmatismo milanese si distinguono per metodo e approccio le teorizzazioni veneziane – peraltro foriere di recenti, accanite, polemiche (vedi il box al fondo). Anche l’Università IUAV si è infatti attivata da qualche anno sul tema ricostruzione, con tesi di laurea, seminari di progettazione e documenti di analisi prodotti all’interno del gruppo di ricerca “Urbicide”. La linea di riflessione è quella di un’esposizione crescente delle città nel mondo ai grandi eventi traumatici, che si tratti di guerre o di catastrofi ambientali, con implicazioni per certi versi simili per i decisori. In un certo senso l’urbicidio è una delle facce di una più ampia vulnerabilità urbana, legata agli scenari di rischio globali, cui il rettore Benno Albrecht con Jacopo Galli ha recentemente dedicato un volume. Dall’osservazione modellizzata emerge che al danno da eventi estremi siano molto più esposte le espansioni a sprawl che i nuclei a insediamento compatto. Questo offrirebbe un’indicazione sulle forme insediative consigliabili nel futuro, per la reintegrazione degli abitati colpiti. Un sistema urbano concepito per unità indipendenti (a cellule, invece della consueta stratificazione) appare al gruppo Iuav più resistente alle minacce esterne: per sottosistemi limitati, più facilmente emendabili, dove si possono favorire processi di autosviluppo locale.
Irpin, per esempio, è città dal tessuto rarefatto per il quale lo IUAV ha studiato una bozza di progetto con un dispositivo modulare che si presta a principio insediativo per ordinare lo sviluppo futuro: un sistema di portici, ricavati erodendo la generosa sezione stradale di matrice sovietica, che possa contenere unità abitative inizialmente temporanee, poi trasformabili in case stabili, operando unicamente su suolo pubblico.
Il bagaglio teorico prodotto dalla sede veneziana si candida dunque come sapere spendibile dalle varie agenzie impegnate nella ricostruzione. Pochi anni fa IUAV era stata consultata dalla World Bank nel definire le strategie di peace-building nelle aree instabili delle tramontate primavere arabe. E da ultimo starebbe per partire una collaborazione con UNDP Regional Bureau for Arab States per Gaza (vedi il box al fondo). Ma è ancora presto per parlarne con cognizione di causa.
Immagine copertina: Banksy in Irpin, © Rasal Hague – wikimedia commons
La ricostruzione della Striscia di Gaza spacca l’Università IUAV
Anche da noi il drammatico scontro politico-religioso che dilania da più di mezzo secolo la culla millenaria della civiltà urbana polarizza il dibattito. Ha scatenato la protesta dell’assemblea permanente degli studenti per la Palestina libera l’annuncio dato a fine giugno dal rettore Benno Albrecht sul protocollo siglato con le Nazioni Unite per la ricostruzione di Gaza. Incarico dettagliato da Albrecht in un’intervista a “il Fatto Quotidiano” con dati ulteriori, compreso un render, offerti da “Wired”. Anche da parte d’importanti esponenti del mondo accademico veneziano sono seguite veementi prese di posizione sulla scia degli studenti. Accuse esplicite d’impreparazione e arroganza vengono da una lettera aperta al rettore di Marcello Balbo, già direttore del Master Iuav in Urban Development and Reconstruction ed esperto di politiche urbanistiche per l’immigrazione. «È come pretendere di esportare la democrazia, inoltre la ricostruzione si fa solo a bocce ferme», ci ha sintetizzato al telefono. Perfettamente concorde Paolo Ceccarelli, già a capo dell’ateneo veneziano, cattedra UNESCO e responsabile del piano di Gerico: «Non si può essere dilettanti che fanno esperimenti sulla vita degli altri», ha scritto a sua volta ad Albrecht «e non ci si può ritenere legittimati da qualche generico appoggio di burocrazie internazionali né dall’aver avuto qualche studente di quella parte del mondo».
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Cnappc , dopoguerra , guerra , Pianificazione , ricostruzione , ucraina , università
Last modified: 24 Luglio 2024