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Cecilia RosaWritten by: Forum

Museo Nacional de Antropología: strategie per superare il “cattivo selvaggio”

A Città del Messico, le opportunità dei lavori di riorganizzazione museografica della sezione dedicata alle comunità indios

 

CITTÀ DEL MESSICO. Mentre i visitatori si affollano nelle sale del piano terra del Museo Nacional de Antropología, dedicate ai ritrovamenti archeologici appartenenti alle civiltà preispaniche, i lavori di riorganizzazione museografica del primo piano, riservato alla collezione etnografica, stanno per giungere al termine.

Il primo piano è storicamente molto meno frequentato: quasi nessuno, infatti, dopo ore passate ad ammirare le sconfinate sale della sezione archeologica, ha le energie per avventurarsi al piano di sopra, dove una serie di manichini, vestiti in abiti “tradizionali” e corredati da oggetti posticci, tenta di riprodurre scene di vita quotidiana delle diverse comunità indios di oggi. Queste comunità, al contrario di quanto si potrebbe pensare, costituiscono una parte significativa della popolazione messicana (circa il 20%), con oltre 60 minoranze linguistiche.

Quando il museo fu inaugurato, nel 1964, si scelse di rappresentare le comunità native con il fine di preservare l’identità di un pezzo di società costantemente marginalizzato; ma se l’intento era quello d’integrare gli indios nella costruzione dell’identità nazionale, la scelta letterale di “musealizzare i vivi” e cristallizzarli nel tempo (nello stesso edificio delle popolazioni sterminate dai conquistadores) ci restituisce un’immagine, se non inquietante, come minimo disturbante.

L’intenzione del vicedirettore e curatore Arturo Gómez Martínez è dunque quella di ri-tematizzare le sale nel tentativo di superare una musealizzazione esoticizzante ormai inattuale: rispetto ad una suddivisione puramente geografica (dal sapore tassonomico quasi ottocentesco), si è scelto quindi di prediligere gli aspetti culturali quali le lingue, la produzione tessile e le festività.

 

Un contenitore distante dai reperti

Ma basterà una riorganizzazione tematica dell’esposizione a cambiare la narrazione che ci offre il museo? Forse è necessario avviare parallelamente una riflessione sull’architettura e sullo spazio espositivo che, insieme al progetto curatoriale, convergono nel definire il racconto degli oggetti in mostra.

Il Museo de Antropología è tra le istituzioni culturali più importanti del Messico. Il progetto è stato redatto da Pedro Ramírez Vázquez, autore, tra gli altri, degli edifici istituzionali più significativi della capitale: la torre di Tlateloco (1965), lo stadio Azteco (1966), la nuova basilica di Guadalupe (1976), il Palazzo di giustizia San Lazaro (1980).

Le proporzioni del museo sono monumentali: superato l’ampio ingresso, le sale si dispongono intorno a un mastodontico cortile, sovrastato da una pensilina sorretta da El Paraguas, una fontana a ombrello di ordine gigante. Il linguaggio dell’edificio, a metà tra brutalismo e modernismo, vuole celebrare la nazione messicana ma, al tempo stesso, stabilisce una distanza siderale tra l’architettura e i reperti archeologici. Questi oggetti, molti dei quali di fattura pregiatissima, vengono esposti secondo le regole museografiche classiche del rapporto figura-fondo, in un allestimento complessivamente ordinario che non dialoga con le proporzioni dell’edificio (per non parlare della dissonanza tra la mole dell’edificio e la pochezza dell’allestimento etnografico).

L’apparato infografico sottolinea inoltre gli aspetti più controversi delle civiltà preispaniche, quali il culto della morte e la pratica del sacrificio umano; gli ampi soffitti neri e le luci d’ambiente soffuse restituiscono un’atmosfera quasi lugubre, che le enormi vetrate sul bosco di Chapultepec non riescono ad annullare.

Nulla o quasi nulla viene detto sulla Conquista spagnola e sullo sterminio sistematico di queste popolazioni; anzi, gli elementi della narrazione espositiva restituiscono un’immagine del “cattivo selvaggio” e rimarcano la distanza tra il visitatore e le antiche culture autoctone.

 

Un possibile riferimento, il Museo Anahuacalli

È chiaro che un ripensamento del progetto architettonico sarebbe inconcepibile ma, alla luce dell’incalzante dibattito odierno sulla decolonizzazione delle collezioni museali, è possibile guardare anche ad altre esperienze?

Sempre nel 1964 viene inaugurato a Città del Messico il Museo Anahuacalli, che raccoglie oltre 2.000 manufatti precolombiani (il museo nel 2021 è stato oggetto di un raffinato ampliamento su progetto del messicano Taller Mauricio Rocha). A promuovere la sua costruzione è un altro protagonista del Messico moderno, il celebre muralista Diego Rivera, coadiuvato dalla figlia Ruth Rivera e dall’architetto funzionalista Juan O’Gorman.

L’edificio è uno strano tempio di pietra lavica le cui forme rimandano all’universo figurativo azteco, senza intenti di parodia. Lo spazio interno è un antro buio illuminato dalle vetrine bianche incastonate nella muratura. I reperti, alcuni dei quali dello stesso materiale dell’edificio, sembrano quasi appartenere all’organismo architettonico, che costituisce un tutt’uno con il progetto museografico. Nella grande sala al primo piano i disegni del pittore messicano si accostano ai reperti, quasi a creare un collegamento diacronico tra le diverse culture materiali prodotte dall’uomo. La totale assenza di un apparato infografico restituisce la complessità delle civiltà preispaniche solamente attraverso gli oggetti, senza appiattirne il racconto.

Il Museo Anahuacalli, meno famoso e frequentato del Museo de Antropología, costituisce dunque, nella sua unicità di opera totale, uno spazio semiotico alternativo e compone, attraverso il progetto, un racconto diverso e più universale, un esempio da cui trarre ispirazione in tempi di conflitto.

Immagine di copertina: Museo Nacional de Antropología (foto di Cecilia Rosa)

 

 

Autore

  • Cecilia Rosa

    Nata a Roma (1990), dove vive e lavora, studia Architettura tra Roma, Milano e Porto, laureandosi con lode nel 2016 presso il Politecnico di Milano. Nel 2019 consegue un Master di II livello presso lo IUAV di Venezia in “Architettura digitale”. Dopo diverse collaborazioni tra Roma e Bologna, dal 2016 porta avanti la professione collaborando con lo studio romano STARTT (studio di architettura e trasformazioni territoriali) su diversi progetti a varie scale, seguendo principalmente progetti museografici. Dal 2019 è assistente alla docenza presso il Dipartimento di Architettura all'Università degli Studi “Roma Tre” e dal 2023 è dottoranda presso il medesimo Dipartimento

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Last modified: 18 Maggio 2024