Report sui principali temi e allestimenti fra 60. Esposizione internazionale d’arte e mostre varie a Venezia
VENEZIA. La facciata del Padiglione centrale ci accoglie ai Giardini con una miriade di vivaci colori che raccontano storie di paesi lontani. Sembra il perfetto manifesto di una Biennale che nel riuscito, anche se ereditato, titolo Stranieri ovunque ben riassume l’indagine che si propone la scoperta dell’espressività artistica di quel mondo, finora escluso, che il curatore Adriano Pedrosa pone alla base delle sue ricerche.
Un inatteso ritorno al museo
Ma subito dall’incipit, qui come alle Corderie dell’Arsenale, delle rigide costruzioni geometriche sembrano portarci in un’atmosfera come non ce l’attendavamo, come non sembrava preludere l’animata decorazione della facciata. Quello che viene proposto, in termini di allestimento spaziale, di scelta museografica – che crediamo derivi da una precisa scelta museologica – sono spazi museali, appunto, precisamente e rigidamente disegnati come i luoghi espositivi più classici che la tradizione occidentale delle esposizioni permanenti ci ha abituato a conoscere. Pareti bianche, pedane, basamenti, tutto ortogonalmente collocato, ben disposto e con una generale rarefazione che si pone a metà fra l’austero e il raffinato.
Nuovi protagonisti, vecchi paradigmi
A un colpo d’occhio veloce, alle pareti potremmo immaginare esserci dei Picasso o anche dei Monet, sui basamenti dei Brancusi, delle grafiche moderne qua e là. Invece si tratta quasi sempre di nomi nuovi alle nostre latitudini, ricchi di espressività altre, colmi di storie che vanno attentamente lette per essere capite. Perché dunque questo scostamento? Perché ciò che è esposto si veste di un abito che è quello dell’arte contemporanea del grande mercato globale occidentale?
Sembra quasi che la storia riscritta abbia bisogno di collocarsi in strutture espositive note, in uno stereotipo del museo con le pareti bianche, le sale simmetriche, le pedane e i basamenti posti in un ordine preciso e sufficientemente rarefatto, perché quella che vi è esposta possa dirsi arte. Come se il processo di decolonizzazione avesse bisogno di sostituirsi nei medesimi spazi espositivi conservati e, quando non esistenti, come in Biennale, ricreati ad hoc.
Il tema del recupero della tradizione allestitiva raggiunge il suo apice alle Corderie nella citazione letterale dell’allestimento di Lina Bo Bardi (Leone d’Oro speciale alla memoria della Biennale Architettura 2021) per il Museu de Arte de São Paulo (MASP), forse dimenticando che gli espositori in vetro e cemento sono parte integrante di un’architettura in beton brut e che da questa traggono senso e occasione. Il risultato, che presenta la diaspora degli artisti italiani con 40 opere, è comunque una delle più belle sale della Biennale.
Il confronto con l’allestimento storico avviene anche al Museo Correr, dove Francesco Vezzoli (“Musei delle Lacrime”) cerca un dialogo con il disegno di Carlo Scarpa – anche qui forte il tema del cavalletto – ma ne nasce una contrapposizione di linguaggi che i basamenti laccati in grigio e rosa dell’artista contemporaneo italiano non riescono a risolvere in modo convincente.
I colori
Sono una chiave di lettura di questa Biennale. Il colore è forma espressiva immediata ed emozionale utilizzato a grandi o piccoli campi, raramente riconducibile entro perimetri descrittivi, figurativi. Il colore nelle sue molteplici nature e nelle sue infinite sfumature, dai gialli, ai rossi alle terre, ai verdi ai blu, si appropria dello spazio solo nel portale coloratissimo del Padiglione centrale ai Giardini, che assume le sembianze di una grande pittura Atzeca, o ancora nel Padiglione degli Stati Uniti dove più astratto, compatto, il rosso scende dalla facciata a inglobare i resti di una gigantesca rovina classica e introduce a un interno dove stanze colorate, una dietro l’altra, una verde, una blu una rossa racchiudono le opere dell’artista di origine indiana Cherokee, raffinata sintesi di tradizione e spirito del tempo, e conducono il visitatore a un gioioso video di forme e colori, felice luogo d’incontro tra culture. Il Padiglione degli Stati Uniti si distingue per coerenza, portando all’interno il coloratissimo approccio dell’opera esterna, riuscendo così a cambiare i non grandi spazi della costruzione neoclassica e vincendo la sfida di un approccio nuovo.
Anche le sculture al neon di Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere, realizzate a partire dal 2004 dal collettivo Claire Fontaine – riprendendone a loro volta l’espressione dal nome di un omonimo collettivo torinese che nei primi anni duemila combatteva contro il razzismo e la xenofobia in Italia – portano con il colore il loro messaggio inclusivo.
Il nitore della galleria Modern Art è ripreso con grande eleganza dal Padiglione della Danimarca, che presenta foto in bianco e nero su sfondo bianco per parlare del nord straniero in Groenlandia. Esattamente come avviene nella bella mostra su Jean Cocteau alla Collezione Peggy Guggenheim, o nella retrospettiva su Armando Testa a Ca’ Pesaro. Ma, mentre nei musei e gallerie sul Canal Grande si tratta pur sempre di uno standard atteso, in Biennale tanta compostezza fa quasi notizia.
Le sorprese allestitive
Provengono dal Benin, per la prima volta alla Biennale, che costruisce un igloo con le parti di quelle taniche di plastica che spesso costituiscono uno dei pochi strumenti di sopravvivenza in terra africana, ma che producono ineliminabili rifiuti, dandoci una lezione di composizione e di comunicazione basata su una non celata povertà di mezzi. L’esatto opposto del muscolare esercizio che va in scena alla Fondazione Prada, ove Ca’ Corner della Regina viene letteralmente invasa da tonnellate di poveri oggetti, testimonianza della vita quotidiana dei molti più che immagine di un “Monte di pietà”, fra i quali, si badi bene, si nascondono però tesori d’arte e finanche diamanti, coinvolgendo il pubblico in una caccia al tesoro – molto faticosa nei pochi spazi concessi – che promette comunque di tramutare il tutto ancora in gemme preziose alla fine della mostra.
All’opposto si pone il tema del vuoto, interpretato dalla Corea con Odorama Cities, che, lasciando gli spazi quasi non occupati, crea l’occasione per salire sul tetto a godere del panorama di Venezia. In effetti un padiglione si può lasciare quasi intatto, collocando semplicemente le opere al suo interno. Così fa la Francia, densa e giocosa per i totem colorati fluttuanti; il Giappone, con la sua idraulica domestica da esposizione che crea falle per tapparle, mentre la frutta marcisce e produce energia; il Venezuela con magnifici colori cinetici nel sempre bel padiglione di Carlo Scarpa, ove un percorso di attivazione cromatica dell’artista Jovenal Ravelo rende partecipe lo spettatore di un viaggio personale di frammentazione di luce e colore. Le colature arancioni (a rappresentare l’olio di palma) scendono nel cubo bianco (bianco = cattivo) del Padiglione dell’Olanda, risultato di un processo di purificazione, mentre in Austria le cromie si identificano nei colori dei fiori, e ogni fiore ha un significato: politico, di amore, di odio.
Dal bianco al nero, ai pastelli
Dal bianco e dai colori si passa inevitabilmente al nero. Il buio è dimensione spaziale in laguna, scelto per preservare i preziosi materiali della mostra su Marco Polo a Palazzo Ducale – dove però si poteva prestare almeno attenzione alla leggibilità delle didascalie – e condizione esistenziale e storica per il padiglione dell’Australia (Leone d’oro per la miglior partecipazione nazionale): nella grande costruzione nera all’esterno, Archie Moore ha lavorato per mesi a disegnare a mano con il gesso bianco sulle pareti nere un monumentale albero genealogico della First Nation, in modo che 65.000 anni di storia (sia registrata che perduta) siano iscritti sulle pareti scure e sul soffitto, mentre in un fossato d’acqua galleggiano i documenti ufficiali redatti dallo Stato. La Finlandia è un padiglione al femminile, rosa salmone e verde pastello alle pareti sottolineate da un filo viola come dissuasori, mentre la “temporanea” struttura di Alvar Aalto regge bene il confronto con il suo colore azzurro.
Le strutture
Ecco un altro tema. Nei Paesi Nordici lo spazio è misurato da una costruzione di bambù che cambia la direzione di attraversamento del padiglione. Nel Belgio l’impalcato è metallico e viene posto a mezz’aria a guisa di soppalco trasparente. Nel Padiglione Italia all’Arsenale – sempre troppo grande per gli sforzi degli artisti che anelano a riempirlo – lo spazio è misurato da una struttura di tubi, all’interno della quale altre canne quadre generano suoni, mentre al centro una vasca d’un liquido oleoso sembra respirare stimolata dal suono, con un effetto generale da cattedrale con un gigantesco organo meccanico intonato in la bemolle.
Struttura è anche “Takapau”, Leone d’oro per il miglior artista, opera di Mataaho Collective: che realizza una luminosa composizione intrecciata di cinghie che attraversano poeticamente lo spazio espositivo d’ingresso alle Corderie. Grazie ad una prodezza ingegneristica vengono proiettate ombre sulle pareti e sul pavimento, ricongiungendo tecniche ancestrali e contemporaneità.
Video e installazioni: non pervenuti
Quasi scomparsi, almeno come tipologia espressiva importante, a favore di una rivalutazione possente della tradizione arts and crafts che, evidentemente, meglio di esprime le radici culturali degli artisti scelti che prediligono nelle loro opere grandi teli tessili cromatici ed espressivi, per lo più collocati su superfici bianche. Un passo in più lo fa l’Uzbekistan, che riesce a costruire un percorso suggestivo utilizzando pareti tessili in mille toni del blu tramutando la storia e la tradizione del paese in una costruzione degna di un’architettura.
Ingresso sul retro
Il tema persiste. La Germania lo applica in modo plateale con la facciata sommersa dalla terra per costringerti ad entrare dalla porta di servizio in un futuro distopico cupo e di regime. Per la Gran Bretagna è, invece, l’occasione per invitarti ad un percorso che, partito dal basement, ti conduce in una dimensione tutta fatta di video narranti collocati in ambienti felpati rivestiti con colori difficili.
Un mondo a parte
Fuori dal contesto e da quasi tutte le tematiche si pone il Padiglione del Vaticano, eterotopia nell’eterotopia, potremmo dire, per come è stato voluto e collocato nelle carceri femminili alla Giudecca. Il padiglione è il viaggio che si può fare nel carcere vivendo l’esperienza con l’accompagnamento di una sua ospite forzata. Le opere d’arte sembrano più il contorno che l’oggetto della presenza vaticana, la quale utilizza la struttura carceraria come grande contenitore contrassegnato da una drammatica vita reale, più che come spazio espositivo. La grande opera di Maurizio Cattelan, le piante di due piedi nudi, stanchi e sporchi, collocate fuori scala sulla facciata, sono un’immagine fortemente emotiva che ci accompagnerà a lungo.
Immagine copertina: Padiglione Centrale ai Giardini della Biennale (© Alessandro Colombo)
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Last modified: 24 Aprile 2024