Senza piani di ampio respiro, si continua a inseguire un modello urbano datato: il pubblico e la città si ritraggono, lasciando mano libera al privato
NAPOLI. Oggi a Napoli i turisti non vengono più per vedere i monumenti, a parte il rito della Cappella Sansevero. Vengono per il tour dei Quartieri Spagnoli, della Sanità e a Forcella per la pizza. L’appropriazione di questi luoghi è la loro morte, è la trasformazione più violenta che si possa immaginare dell’abitare, del commercio, dell’aspetto di quei vicoli e di quelle piazze, ma i turisti la rivendicano: è bello che anche noi possiamo entrarci. Perché, a parte la paura sproporzionata alimentata dal pregiudizio becero, che cosa esattamente impediva a chiunque di entrarci prima?
Turismo: dall’estetica Narcos alle speranze, vane, per la nuova giunta
Quando il processo di turistificazione ha preso vigore in città, i discorsi critici sul turismo erano ancora molto disarticolati, quasi invisibili tra i peana e le speranze riposte nel miracolo di una nuova attraentissima reputazione, ottenuta proprio grazie all’immagine che sembrava infamante – ma si era rivelata cool – costruita da Gomorra, da Liberato, dalle Vele (più tardi da Mare fuori), da quell’estetica così Narcos da risultare addomesticabile, riducibile a parco a tema.
Ma cinque o dieci anni più tardi, con l’arrivo di una giunta di “competenti”, di un blocco universitario compatto che, dal sindaco Gaetano Manfredi in giù, ha preso in mano il governo urbano, era lecito aspettarsi una pronta ricezione del dibattito sulle enormi contraddizioni generate dai flussi in transito, sulle irreversibili trasformazioni di quartieri come l’Alfama a Lisbona o le espulsioni dalle aree popolari a Roma o Barcellona, l’ingiustizia spaziale manifestata in tutta la sua solida evidenza. E una serie di misure urgenti volte a garantire il “diritto a restare”, la possibilità di resistere alla sostituzione di classe, il boicottaggio dell’umiliante disneyficazione “basso experience” di quello che era il centro antico più vivo d’Europa.
Al contrario, i primi due anni e mezzo di questo governo municipale sono stati caratterizzati da un riserbo assoluto sui piani di lungo periodo e ampia scala e l’annuncio di una serie di progetti spot tutti orientati a implementare il turismo senza se e senza ma, per lo più sacrificando il benessere degli abitanti.
Il caso più eclatante è stato il tentativo, finanziato dall’allora ministro della Cultura Enrico Franceschini, di trasferire la meravigliosa sede della Biblioteca nazionale, con l’intero patrimonio dei papiri pompeiani e dei 30.000 manoscritti leopardiani e non, da Palazzo reale all’Albergo dei poveri (Palazzo Fuga), una struttura gigantesca ma difficilissima da riconvertire a qualsiasi funzione, che ne moltiplicherebbe i costi di manutenzione, e che è già costata centinaia di migliaia di euro in consulenze per la sola formulazione d’ipotesi progettuali. L’aspetto più problematico della questione – che ha scatenato le proteste della cittadinanza e del personale della biblioteca, producendo il probabile naufragio del progetto – è che il vero obbiettivo dell’oneroso trasferimento di una biblioteca pubblica così prestigiosa consisteva nel fare spazio ai crocieristi: rendere il Palazzo reale un collage di musei kitsch a servizio del turismo peggiore.
Una visione della cultura e della città molto misera, fondata sulla privatizzazione e cartolarizzazione dei beni comuni e sul fare (poca) cassa. Che si riflette anche nella privatizzazione di Castel dell’Ovo, del Cimitero delle Fontanelle, delle poche spiagge urbane, beni prima almeno in parte gratuitamente accessibili e fruiti dai cittadini, e sulla cessione a Invimit per soli 16 milioni di tre grandi caserme, della Galleria Principe di Napoli, di Villa Cava a Marechiaro e di alcuni depositi.
Manfredi-Draghi: un patto (datato) da Troika
Sembra, in piccolo, una riproduzione delle politiche economiche imposte alla Grecia dopo il lungo braccio di ferro tra le istituzioni europee e una popolazione che non ne voleva sapere dell’austerità. Con un debito di 1,4 miliardi, il sindaco Manfredi ha firmato nel 2022 con lo stesso presidente del Consiglio dei ministri Mario Draghi un Patto per Napoli che non ha nulla da invidiare alle misure della Troika: spending review, svendita dei beni pubblici e turismo, proprio dove invece c’è più bisogno di spesa pubblica per la manutenzione ordinaria e straordinaria, di moltissime nuove assunzioni in una pubblica amministrazione ridotta a un terzo di quello che era, e di piani espansivi per diversificare l’economia.
Napoli è una classica shrinking city, come Genova, Torino e molte altre città di un’Italia che sta ripudiando il suo storico policentrismo per concentrare le risorse su Milano o su Roma. Gli abitanti emigrano, soprattutto i più giovani e i più formati, provocando un impoverimento territoriale più profondo rispetto alle ondate migratorie del secolo scorso – come racconta bene Isaia Sales. Pensare di rilanciare l’economia e la qualità della vita di queste aree urbane puntando sul dogma dell’attrattività, come stanno attualmente facendo le loro amministrazioni, è una politica doppiamente suicida: perché oggi è evidente che il regime competitivo costringe anche le metropoli globali che si sfidano ai livelli massimi, le più ricche, a vampirizzare i territori circostanti e le classi più fragili, ostacolando la redistribuzione delle risorse e qualsiasi reale politica di giustizia sociale e ambientale. E perché a chi non riesce a emergere nel circuito di prima fascia non resta che arrendersi a un capitalismo estrattivo ancora più efferato, in cui l’unico modo per attrarre investimenti è offrire lavoro, terreni, concessioni a prezzi stracciati, tasse bassissime e pochi o nessun vincolo. Se ne sta accorgendo la stessa Milano, travolta in questi mesi da proteste per l’insostenibilità dell’abitare, la pessima qualità dell’aria e da una serie d’inchieste giudiziarie che denunciano lo stravolgimento delle più basilari norme urbanistiche ed edilizie a opera dell’amministrazione per “facilitare” gli interventi di rigenerazione e densificazione urbana.
Eppure la maggior parte delle città, grandi e piccole, ricche e povere, continua a inseguire questo modello urbano ormai datato, fondato su presupposti ideologici risalenti a mezzo secolo fa, senza provare a cercare alternative sensate.
Aprire praterie ai privati
La bozza del Documento strategico per una città giusta, sostenibile e attrattiva, recentemente comunicata al pubblico dall’assessora alla Rigenerazione urbana Laura Lieto, ne è un esempio tangibile. Si tratta della prima esternazione ufficiale sulle intenzioni urbanistiche della giunta, che antepone alla revisione del PRG del 2004, prevista in un secondo tempo, questo strumento di pianificazione strategica per velocizzare i processi di trasformazione.
Pur descrivendo, nella parte analitica, la gravità dei processi di mercificazione ed espulsione degli abitanti a opera del turismo, la carenza di spazi e servizi pubblici, la necessità di produrre una nuova giustizia ambientale, il documento indica come priorità assoluta l’attrazione d’investimenti finanziari e flussi di diversi “turismi”. E, senza possibilità di equivoci, indica come principale “asset” della città “la più ampia disponibilità di aree pubbliche da sviluppare/rigenerare/riqualificare, da Bagnoli alla zona retrostante il centro direzionale”, e come dispositivo fondamentale l’eliminazione di “vincoli troppo rigidi alla rigenerazione urbana”. L’imperativo è aprire praterie per i privati.
Ma allora, come si ottengono spazi e servizi pubblici? “Riformando le attrezzature di quartiere”, cioè sfumando quella che era la vecchia idea degli standard in un’innovativa complessità dei bisogni che si traduce nell’immancabile “coalizione pubblico-privato nella produzione di attrezzature e beni pubblici”, e soprattutto nella loro gestione. Resilienza, attivazione della cittadinanza, reti del privato sociale sono le parole d’ordine di un pubblico che si ritira dalle responsabilità e dalla gestione del territorio, erogando sempre meno soldi ad associazioni e fondazioni in lizza per valorizzare quartieri, strutture e parchi.
L’area orientale per i grandi investimenti
A parte la lenta evoluzione di Bagnoli, per la quale vengono sempre invocati i privati, sul piano dei grandi interventi si punta tutto sull’area orientale: il raddoppio del Centro direzionale, “Napoli Porta Est”, cioè la rigenerazione di una grossa area intorno alla stazione Garibaldi da Gianturco a via Marina che prevede un nuovo palazzo della regione nell’area Garibaldi, un nuovo nodo ferroviario e dei bus con megaparcheggi, la copertura dei binari a est della stazione e dei binari della stazione della Circumvesuviana, che dovrebbero diventare una nuova passeggiata sopraelevata.
A San Giovanni a Teduccio, poi, si vorrebbe arginare l’invasività della logistica e del retroporto, ridimensionare container e petroli, per fare spazio ai consueti paesaggi di start up e innovazione culturale e sociale, centri di economia circolare e comunità energetiche, paradisi della ricerca universitaria e delle piste ciclabili che animano i rendering di tutte le città cosmopolite, e che secondo le previsioni sarebbero dovute fiorire intorno alla Apple Academy sorta sulle ceneri della Cirio.
Visioni per ora troppo vaghe per fronteggiare i poteri delle autorità portuali o dei petrolieri che non sembrano intenzionati a spostarsi. Così come è difficile immaginarsi le intersezioni tra le infrastrutture pesantissime che s’incrociano sull’area e le vie d’acqua e le reti ciclopedonali ipotizzate.
Uno spiraglio per l’edilizia pubblica
L’unico scarto parziale da questo copione è il tema dell’edilizia pubblica, poco nominato nel Documento strategico ma oggetto di costante attenzione, anche se con mezzi limitati, da parte dell’assessora Lieto. Negli ultimi decenni Napoli ha venduto molte case popolari, e la manutenzione del patrimonio ancora pubblico è stata, se possibile, peggiore che in altre città. Lieto ha tuttavia iniziato ad affrontare i casi più difficili optando per l’abbattimento-ricostruzione ma, differentemente da altre città, provando a trovare soluzioni per tutti, anche le famiglie non perfettamente in regola: per esempio a Scampia, a Taverna del Ferro, nei famosi Bipiani di Ponticelli. Almeno per ora, non ha sposato la via esclusiva dell’housing sociale come panacea di tutti i mali. E questo è già quasi un miracolo nel panorama nazionale.
Immagine di copertina: © Giovanna Silva
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napoli , rigenerazione urbana , ritratti di città: napoli , turismo
Last modified: 14 Febbraio 2024