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Michela MorganteWritten by: Città e Territorio

L’archiviaggio. Tbilisi, tra passato e futuro

Le contraddizioni della capitale della Georgia tra appetiti immobiliari, gentrificazione, immagine della committenza pubblica ed esterofilia

 

TBILISI (GEORGIA). L’impressione al primo sguardo dall’alto è quella di una città all’europea, impiantata lungo meandri fluviali serpeggianti, tra due versanti rocciosi. La sorveglia dall’alto la mega-statua scintillante della Madre di Georgia, in una mano la coppa di vino, nell’altra la spada: ambivalente tra accoglienza e punizione, come la mamma yiddish di un film di Woody Allen.

Ana, la host che ci accoglie in una gradevole via alberata periferica, di schiere primo Novecento, preferisce il basso profilo. Non parla una parola d’inglese. Albergatrice a tempo perso, scopriremo grazie a Google traduttore, è in realtà una ricercatrice plurititolata di Statistica, con solida formazione di stampo sovietico. Come primo consiglio ci dirotta, ignari, per la colazione a Fabrika, sorta di centro sociale boho-chic dove l’atmosfera è vagamente berlinese. Osserviamo la preesistenza industriale razionalista (7.600 mq di cemento a vista e grandi finestre a nastro) sapientemente trasformata in centro polivalente, con tocco leggero di hipster design. E conveniamo sull’intelligenza del progetto di MUA Multiverse Architecture (2017). Con ambizioni d’incubatore di creatività giovanile, e polo d’irraggiamento di nuove qualità urbane, pare abbia effettivamente risollevato l’appeal del quartiere Chugureti, grazie a un programma socio-funzionale non velleitario, in giusta osmosi tra mercato e condivisione delle prospettive locali. L’ostello ha 400 posti letto, accanto a spazi di co-working, studi d’artista, concept store. Il ricco calendario di mostre seminari e concerti ha visto coinvolte anche università di architettura italiane.

Da Fabrika la distanza al centro storico è tranquillamente percorribile a piedi, fatti salvi ovviamente i 38° C all’ombra estivi. Rinunciamo a esplorare la macchia d’olio metropolitana, le distese di blocchi abitativi che tra il 1921 e il 1991, l’era sovietica, hanno portato a decuplicare la superficie di Tbilisi, rinviandolo ad un viaggio futuro (la città invita a ritornare). Più banalmente ci dedichiamo alla capitale cristiana, cosmopolita, attraversata per secoli dai flussi commerciali lungo la Via della seta.

Betlemi, la porzione storica inerpicata sulla collina, è stata riqualificata nel 2004, leggiamo, con il ricorso a expertise di restauro ligneo (e finanziamenti) norvegesi. È quanto rimane di un’abortita candidatura Unesco del 2007, per l’intera Old town, arenatasi per la miriade di manomissioni autorizzate dalla municipalità con il noto meccanismo del fatto compiuto. La ripresa dopo la paralisi post-sovietica ha portato infatti, nel 2007-8, a un picco edificatorio nella capitale, quasi 2 milioni di nuovi mq l’anno. Ma Betlemi dà ancora l’idea di cosa doveva essere l’organismo urbano tradizionale: un intrico, pittoresco per noi occidentali, di case in muratura, a tipologia “aperta”. In concatenamento continuo, cioè, tra balconi e cortili, visibilmente imparentato, commentiamo, con l’edilizia vernacolare turca.

 

La conservazione, un tema scottante

Quello della conservazione è un tema scottante in Georgia. La capitale è, tra il resto, tutta punteggiata da belle architetture Art Nouveau, spesso in penoso stato di degrado. Un repertorio notevole, censito e consultabile online grazie a un giovane cultore della materia estone. Lo stile floreale, ipotizza il benemerito, è penetrato ai primi del Novecento, fondendo modelli russi ai più noti nord-europei. Resta il fatto che questi ornati edifici non sembrano al centro degli appetiti del mercato immobiliare, che impazza altrove, erodendo a spot i tessuti delle aree più centrali. La deriva è stata quella tipica di molte città ex socialiste, all’atto dell’integrale de-statalizzazione di terreni e immobili sul suolo nazionale.

A Tbilisi la gentrificazione ha peraltro conosciuto cicli storici precedenti. C’è, per esempio, quello strano episodio edilizio, impossibile non notarlo mentre girovaghiamo nella zona centrale di Meidan, dai primi anni 2000 riconvertita in area à la page di piccoli negozi, studi professionali e ristorantini acchiappa-turisti. La riqualificazione (un po’ senz’anima) si è abbattuta anche su questo isolato curvo, a schiere concentriche, una mini Regent Street in salsa Déco, sorta già a suo tempo con intenti speculativi. L’isolato commerciale era infatti calato nel 1903-5, per volontà del magnate petrolifero Alexander Mantashev, su un’area di bancarelle e antichi magazzini del cotone. Alexandre Dumas, cinquant’anni prima, aveva fatto in tempo a vedere la zona nell’assetto preesistente, così.

Fino a tutto il decennio 1990, comunque – spiega il saggio illuminante di geo-politica urbana di Joseph Salukvadze e Oleg Golubchikov City as a geopolitics: Tbilisi, Georgia – A globalizing metropolis in a turbulent region – a Tbilisi non emergono progetti radicali di rinnovamento. Gli investitori si concentrano su interventi minori di rapido ritorno, e si limitano a densificare i lotti, aumentando la congestione del centro.

 

La modernizzazione liberale e il legame con l’Italia

Tutto cambia

quando irrompe sulla scena un nuovo soggetto politico, fortemente interessato al potere simbolico dell’architettura, a fini di autocelebrazione. Il personaggio chiave si chiama Mikheil Saakashvili, il modernizzatore neoliberale a capo del Paese fino al 2013. Dal 2021 è in carcere per malversazioni, ma ci ha lasciato sulla collina, a imperitura memoria, una brutta copia geometrile del Reichstag, con tanto di cupola di vetro, per giunta ovoidale – frutto della collaborazione tra un architetto locale e il paesaggista romano Franco Zagari, da poco scomparso.

Il successore di Saakashvili, l’oligarca Bidzina Ivanishvili, più discretamente occhieggiava dal versante opposto. Dalle infinite stanze del suo palazzo futuribile, in acciaio e vetro, stile Spectre, con tanto di vasca per gli squali – un progetto del giapponese Shin Takamatsu. Ai loro piedi, come un lancio di dadi nella piana, una manciata di altri interventi, per lo più ascrivibili a professionisti italiani. Per tradizione legati ai potenti di Georgia, sin dai tempi del padovano Giovanni Scudieri, che lo zar aveva assoldato per riordinare la città ottocentesca.

Ci fermiamo sul ponte della Pace, in mezzo a sciami di giovani e famigliole, abitanti e turisti. E cadiamo, come molti, nella tentazione di un selfie tra le sue svolazzanti trame reticolari. Luogo instagrammabile di struscio e d’incontro, giorno e notte sospeso tra le due rive della Kura, e tra hi-tech ed effetto luna-park. La scenografica regia di Philippe Martinaud orchestra 1.200 Led ogni sera, a partire dal tramonto.

 

Michele de Lucchi e Massimiliano Fuksas

Michele De Lucchi

ha progettato molto, oltre a questo oggetto, in Georgia, negli anni seguiti alla Rivoluzione delle rose. In particolare a Batumi, la rutilante Miami del Mar Nero. Tutte committenze di Stato, sedi ministeriali e uffici pubblici locali. Il Guardian, prendendo di mira indistintamente gli edifici-trofeo voluti da Saakashvili, aveva deriso crudelmente il progetto (definendolo Always Ultra, per la “sfortunata somiglianza con un assorbente scartato”). Eppure, la struttura resiste, oltre un decennio dopo, con la forza di un dispositivo urbano metabolizzato ed estremamente popolare.

Superata la Kura approdiamo ad un altro fiore all’occhiello della rinnovata capitale georgiana, la sistemazione del Rike Park (CMD Ingenieros, Valencia, pianta qui). Intervento, invece, già a prima vista poco riuscito. Fragile il concept di base, ispirato da una banale retorica celebrativa – una mappa della Georgia con al centro il motivo a rilievo della rosa, in cemento e spalmato sintetico, uso skateboard – più fragile ancora l’esperienza spaziale dal suo interno. Attraversiamo questo spazio dispersivo, dove la componente artificiale prevale nettamente sul verde, concentrando il torrido estivo invece di mitigarlo. Maldestra ideazione o carente politica manutentiva? Ci interroghiamo divertiti anche sull’eterogenea collezione di arredi kitsch, dal pianoforte gigante alla scacchiera stile Marostica. Al margine del parco non manchiamo di notare che la funivia di risalita alla Madre di Georgia porta il marchio dell’alto-atesina Leitner. Impianti analoghi installati in Messico, Colombia, Turchia, Corea, Norvegia, Hong Kong, Catalogna, come recita una loro brochure sulla mobilità urbana sostenibile.

Ma il nostro impeto d’orgoglio nazionale subisce un duro colpo al cospetto dei due “tuboni” di Massimiliano Fuksas: visibilmente intonsi e, al momento, piantonati da guardie anti-vandalismo. Le due jugs (brocche, per l’esplicito richiamo formale ai “corni da vino” della tradizione georgiana), dovevano contenere rispettivamente un auditorium e un centro espositivo. Nessun media ne mostra mai gli interni, salvo un raro render. Il dolente fascicolo dedicato all’intervento annovera, nell’ordine: nel 2012 la progettazione, nel 2016 il completamento, nel 2018 l’abbandono, nel 2019 l’inserimento nel catalogo statale delle privatizzazioni (“The 100 Investment Offers for Business”), nel 2022 la vendita a privati dopo sette (sette!) tentativi d’asta. Indi, irrisorio recupero dell’investimento pubblico (un quinto della base d’asta iniziale) e procedura, come d’uso in Georgia, di nessuna trasparenza. Il bando della privatizzazione prevedeva il vincolo di destinazione a museo del vino con scadenza di adempimento entro 36 mesi. Ma non risultano notizie sugli sviluppi della cosa, almeno non sulla stampa internazionale di lingua inglese.

Sembra andata meglio all’altro progetto di Fuksas attestato sul fiume di Tbilisi, la sede dei servizi pubblici locali. Ministero dell’energia, uffici del Registro, Banca nazionale funzionano a pieno ritmo. Sette volumi tutti vetrati, organizzati intorno ad una hall alta 35 metri, su cui affacciano i rispettivi front office. Il tutto sormontato da una serie di candidi petaloni in acciaio e fibra di vetro, il volto gentile del nuovo governo riformato. A dire il vero, ad un anno dalla realizzazione (dicembre 2013), la copertura è crollata a causa del vento. Tutti illesi, e tetto rapidamente ripristinato.

 

Si deve guardare nella scatola nera della committenza?

Eppure

. Riprendendo l’aereo, a qualche giorno di distanza, viene da chiederci fino a che punto gli incarichi professionali debbano guardare dentro la scatola nera della committenza. E di chi sia la responsabilità, non tanto legalmente, di problematiche imputabili a forniture e maestranze poco controllabili. E fino a che punto l’autore debba ritenersi coinvolto ex post. Se l’opera una volta consegnata possa dirsi vivere di vita propria. Dannarsi l’anima? O lavarsene le mani, fingere di non vedere, fare le anime belle? Ma forse sono i dubbi di chi abbia, appunto, deciso di fare proprio un altro mestiere.

Immagine di copertina: © Thasreef Balarath

 

 

Autore

  • Michela Morgante

    Architetta, dottore di ricerca in Urbanistica, si occupa di storia urbana contemporanea. Ha insegnato “Storia della città e del territorio” e “Storia del paesaggio italiano” presso Conservazione dei Beni Culturali a Ravenna. Tra i temi indagati, in saggi su riviste e monografie: la tutela storico-artistica nella pianificazione delle città italiane tra Otto e Novecento, le dinamiche edilizie della ricostruzione post-bellica, l’infrastrutturazione del territorio per il governo delle acque, le politiche territoriali di area vasta. Le pubblicazioni più recenti riguardano la rappresentazione delle città d’arte italiane bombardate durante la Seconda guerra mondiale, in chiave di propaganda. Collabora con "Il Giornale dell'Architettura" dal 2004

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Last modified: 24 Luglio 2023