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Francesca FavaroWritten by: Forum

L’archiviaggio. Bosnia e Albania tra lacerazioni, finti presepi, autolavaggi e vecchi bunker

Appunti di viaggio scendendo in auto a sud nei Balcani: Mostar, Sarajevo, Scutari, Butrinto

 

Viaggiare in auto da Torino al confine tra Albania e Grecia è attraversare diverse storie. In questa discesa verso sud i confini non sono solo quelli tracciati sulle mappe e segnati dalle dogane, ma si riflettono anche nelle cose, nelle parole, nei volti, nei profumi del cibo, nei rumori delle città.

Dietro al finestrino, si rincorrono paesaggi diversi e il viaggio procede lento, sotto un sole cocente e lungo strade strette, mai uguale a se stesso. In quattro, su una jeep rovente, abbiamo la sensazione di poter descrivere questi luoghi solo in modo discontinuo, saltando da un elemento a un altro, con cambi di scena veloci, con le catene di parole che s’inventano da bambini. Riesco a farne un resoconto irregolare e sincopato, che tiene insieme solo alcuni frammenti dei luoghi che ho attraversato e delle voci che ho sentito; un diario di viaggio soggettivo, un accostamento di immagini.

 

Mostar e Sarajevo: un ponte ricostruito in stile e una funivia modernissima

Insediamento di frontiera ottomano sviluppatosi tra XV e XVI secolo nella valle del fiume Neretva, Mostar è la prima città nella quale ci fermiamo. È sera e le sue strade sono gremite di turisti. Il rumore di fondo è sovrastato dal canto del muezzin proveniente dal minareto della moschea di Koski Mehmed-Pasha, gravemente danneggiata durante i conflitti del secolo scorso, e in parte ricostruita negli anni Duemila.

La città antica e il celebre ponte, lo Stari Most, divenuto suo simbolo, sono l’esito di un’attenta ricostruzione in stile avvenuta nel 2004, con il contributo di un comitato scientifico internazionale nominato dall’Unesco, che nel 2005 ha riconosciuto la cosiddetta “Old Bridge Area of the Old City of Mostar” come patrimonio mondiale (sottolineandone anche il valore di “simbolo di riconciliazione, cooperazione internazionale e coesistenza di diverse culture, etnie e comunità religiose”).

La convivenza, lunga diversi secoli, di musulmani, cristiani cattolici e ortodossi ed ebrei sefarditi si riverbera sullo skyline della città: minareti, campanili e crocifissi gareggiano per sovrastarsi sulle sue sponde (il campanile della chiesa dei Santi Pietro e Paolo raggiunge i 107 metri, una croce, la Milenijski Križ, sul monte Hum, è alta 33 metri), e fanno da sfondo a una città ormai nota meta turistica nella quale, tuttavia, al di là delle narrazioni, l’integrazione tra croati, nella parte ovest, e bosniaci musulmani, a est, avanza con fatica.

La città antica e il suo ponte, in cui camminiamo quasi incolonnati, schiacciati tra gli altri turisti, circondati da negozi di souvenir in serie, sembrano un presepe, (ri)costruito con cura, riconsegnato senza patina. Colpiscono le lastre di pietra bianca di cui è composto il selciato, rese lucide e scivolose dai tanti passi.

Eppure, è sufficiente imboccare una strada laterale rispetto al percorso più battuto per imbattersi nelle facciate dei palazzi crivellate e segnate dalle bombe, nei vetri rotti, nella disarmonica sovrapposizione d’interventi provvisori – poi diventati definitivi – per riabitare le case e le strade, nei gatti randagi, nei suoni della vita ordinaria, nella città ferita e “rattoppata” per parti, autentica.

Gravemente distrutta due volte, rinata due volte, assediata per 1.425 giorni, Sarajevo riconferma con forza le pluralità e le contraddizioni di Mostar. Gli strati della sua storia sono ancora leggibili, dietro ai colori accesi del mercato e delle insegne delle botteghe e dei ristoranti nel suo nucleo più antico, l’area di Baščaršija.

Oltre alla straordinaria prossimità, in spazi ridotti, di cattedrali, sinagoghe e moschee, che le ha fatto guadagnare l’epiteto un po’ approssimativo di “Gerusalemme d’Europa”, di Sarajevo mi rimane impressa la conversazione con una passante, una donna tornata in città per fare visita ai pochi amici rimasti, dopo essere emigrata, come moltissimi negli anni novanta. Ai suoi occhi, la città è irrimediabilmente trasformata: è un involucro di storie interrotte bruscamente e di vecchi ricordi che galleggiano in superficie, alle prese con il tentativo di scrivere un nuovo capitolo della sua biografia, mettendone a sistema le complessità.

La visita, poco dopo, a quanto rimane della pista olimpica di bob e slittino del Trebević, realizzata dall’architetto Boreisa Bouchard sull’omonimo monte, nella periferia orientale, per le Olimpiadi invernali del 1984, è la materializzazione potentissima delle sue parole. Utilizzata come posizione d’artiglieria dalle forze serbo-bosniache durante l’assedio, con le sue strutture in cemento armato, la pista è rimasta, nonostante alcuni danni, intatta e leggibile. Vestita di graffiti coloratissimi e avvolta da una vegetazione esuberante e rigogliosa ci dà la misura del tempo trascorso, delle aspettative disattese, dei grandi progetti sospesi, degli strappi violenti, mentre gli alberi attorno ricuciono, leniscono, riconciliano. Da alcuni anni sono iniziate le operazioni di restauro, e nel frattempo la pista è percorsa da alcuni turisti e locali: pochi rispetto a quelli che salgono fino alla cima del monte, a 1160 metri, ricongiunto alla città dalla funivia inaugurata nel 2018, in sostituzione della precedente del 1959, distrutta durante il conflitto.

 

Albania vicina e lontana, tra contrasti e costanti

Fin da subito l’Albania appare famigliare ed estranea allo stesso tempo; nella via principale di Shkodër (Scutari, in italiano), nota come “la Firenze dei Balcani” (senza, va detto, una ragione effettiva), le facciate colorate, la grande cattedrale cattolica di Santo Stefano, i volti, le voci e i gesti di chi è seduto ai tavolini dei bar rimandano a luoghi già visti, a scampoli di una storia comune. Appena fuori dal centro, invece, isolata, ai piedi dell’altura su cui sorge il castello di Rozafa, la moschea settecentesca di Buşatlı Mehmet Pasha, detta “moschea di piombo” per le sue coperture metalliche che brillano sotto un sole feroce, marca con forza una distanza che disorienta e affascina.

Nel tratto di viaggio attraverso l’Albania, da nord a sud, da Scutari a Butrinto, si finisce per abituarsi ai contrasti: all’avvicendarsi di alberghi opulenti, tanto kitsch da diventare seducenti, di bancarelle precarie sotto cumuli di angurie in vendita sul ciglio delle strade, di contadini che si spostano sugli asini accanto ad automobili sportive, di pozzi di petrolio e bacini di stoccaggio arrugginiti (nell’area di Patos-Marinza) in mezzo a giardini e frutteti.

Dopo diversi chilometri smette di sorprendere anche il numero a dir poco straordinario di autolavaggi: nella pratica, strutture metalliche provvisorie, ricoperte da tende di plastica, che diventano una costante rassicurante del paesaggio dietro al finestrino. E i bunker, lascito ingombrante della dittatura di Enver Hoxha (1944-85) che, come funghi di cemento armato, punteggiano spiagge e campagne, e sono oggi in stato di abbandono o utilizzati nei modi più vari.

La discesa verso sud si conclude al parco nazionale di Butrinto, il primo sito albanese ad essere stato iscritto nella lista del patrimonio mondiale Unesco (1992). Situato all’estremità meridionale dell’Albania, di fronte all’isola di Corfù, quel che rimane di questo antico centro è circondato da un’area naturale estesa su circa 90 kmq, lambita dalle acque del lago omonimo e del canale di Vivari. Rimasto indenne dall’aggressiva speculazione edilizia che ha interessato quest’area divenuta frequentata meta turistica, il parco custodisce i resti d’insediamenti risalenti almeno al 50.000 a.C., fino alle fortificazioni erette nel XIX secolo d.C.

È sera quando visitiamo Butrinto e il silenzio è rotto dal rumore sordo di una piattaforma galleggiante, che trasporta da una sponda all’altra del canale persone a piedi, automobili e motorini, ancorata a un cavo metallico. Questo rettangolo di ferro e legno che si muove lentamente sull’acqua, azionato da un uomo seduto su una sedia di plastica, mi sembra in quel momento un’immagine preziosa.

Immagine di copertina: piattaforma galleggiante a Butrinto (tutte le foto sono dell’autrice)

 

 

Autore

  • Francesca Favaro

    Laureata in architettura presso il Politecnico di Torino, dove consegue nel 2021 il dottorato di ricerca in “Architettura. Storia e Progetto” e ora è assegnista di ricerca. Studia l’architettura e la professione di architetto nel Settecento. È interessata ai temi connessi alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio architettonico e artistico

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Last modified: 5 Luglio 2023