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Michele RodaWritten by: Reviews

Copenaghen, tutti i colori del Common Ground

La mostra principale del programma della Capitale mondiale dell’architettura Unesco presenta progetti e forme di uno spazio pubblico innovativo e creativo

 

COPENAGHEN. Lo studi all’interno, lo vivi all’esterno. Questione di pochi metri, esci dalle porte vetrate del Danish Architecture Center (ospitato nel Blox di Rem Koolhaas) e ti trovi immerso nello spazio pubblico della capitale danese. Tanto coltivato e celebrato da diventare il tema forte degli eventi che accompagnano quest’anno di celebrazioni. Se Copenaghen è la Capitale mondiale dell’architettura (i motivi li abbiamo raccontati in questo ritratto di città) lo deve anche, e forse soprattutto, ad un approccio speciale, identitario e fortemente sperimentale ai suoi luoghi collettivi.

 

Copenaghen in Common

Non stupisce quindi la scelta del palinsesto di mostre di quello che, pur piccolo e fortemente integrato in uno spazio complesso e multiforme affacciato sul Canale, è il cuore della cultura architettonica cittadina. Copenaghen in Common è lo slogan che unisce e lega un percorso di diversi frammenti che diventano, innanzitutto, l’auto-celebrazione di un modello di città. Capace di tenere insieme comunità, infrastruttura e tanta architettura contemporanea. Non c’è progetto presentato in mostra – e comunicato attraverso un’accumulazione di strumenti: dalle foto ai video, dai modelli a schemi e diagrammi – che non esprima un’innovazione in tema di spazio collettivo: un canale che diventa spiaggia, il tetto di un inceneritore nuovo paesaggio con tanto di pista da sci, la copertura di un autosilo inaspettato luogo per lo sport, ponti e trampolini come nuovi sorprendenti itinerari urbani a contatto con l’acqua.

Città-blu, verde, densa e mista sono i 4 concetti (che corrispondono alle sezioni dell’esposizione) di un unicum, esito di un patto sociale incardinato sui concetti di sviluppo e porosità. In linea con il carattere prevalente dei luoghi che racconta, l’esposizione non ha gerarchia, è accessibile e democratica. Il visitatore può costruirsi un itinerario personale, toccando rapidamente i media esposti e indugiando sulle viste verso l’esterno che una collocazione così centrale permettono. Oppure approfondendo i singoli progetti riccamente illustrati con numerosi materiali, orientati anche alla dimensione sociologica.

 

Giovane e informale

Così è la città, con età media di 36 anni (a Milano e Roma, tanto per dare un’idea, 10 in più). Ogni anno si aggiungono 10.000 nuovi abitanti ai circa 800.000 attuali. Informali sono i suoi spazi di vita collettiva che, in un giugno caldo e molto soleggiato, si animano trasmettendo sensazione di energia, dinamismo, di continua e progressiva trasformazione. Ma giovane e informale è anche questa mostra. C’è meno ricerca estetica tradizionale, pannelli in legno chiaro costruiscono sfondi e scenari multipli. In legno sono anche supporti e piattaforme. Mentre colorate, coloratissime, sono le immagini: dai graffiti di Christiania (la comunità hippy semi-indipendente, fondata ad inizio Anni ’70) alle pavimentazioni di Superkilen Park nel quartiere periferico di Norrebro, lo spazio comune di Copenaghen è anche una questione di toni visuali, amichevoli e coinvolgenti.

È una mostra anche molto narrata, con numerosi video e interviste, anche ai protagonisti di questa fortunata stagione dell’architettura danese. Un percorso dinamico e stratificato dietro cui si nasconde il rischio di una celebrazione acritica.

Lo spazio pubblico contemporaneo di Copenaghen è spesso griffato, ha materiali di pregio, trova occasioni di fioritura all’interno delle grandi espansioni che la città ha vissuto (verso sud soprattutto) e sta vivendo (in particolare nell’area portuale in ricostruzione di Nordhavn). È certamente per tutti ma si offre più comodamente ai cittadini con alta disponibilità economica. Appare meno praticato nei quartieri periferici e in quelli in cui convivenza e integrazione risultano più complicate. A ciò si aggiunge la necessaria ricerca di forme e soluzioni capaci di confrontarsi con gli effetti dei cambiamenti climatici. Sono generalmente spazi con scarsa presenza di verde o comunque di elementi per creare zone d’ombra. Fattore che, anche in Scandinavia, sembra diventare ogni giorno di più decisivo per la qualità di luoghi collettivi dell’oggi e del domani.

 

E gli architetti (da tutto il mondo) studiano

Sono circa 10.000 i professionisti attesi in città nella prima settimana di luglio in occasione del 28° Congresso mondiale degli architetti (organizzato dalla International Union of Architects) con titolo Sustainable Futures – Leave No One Behind. La città offre così i suoi spazi pubblici, facendoli diventare casi-studio esemplari a livello globale. E schierando, tanto con i progetti quanto con interventi durante i cinque giorni di convegno, alcune tra le sue figure principali.

Da Bjarke Ingels a Dorte Mandrup, da Jaja Architects a Cobe, fino a Jan Gehl e alle sue teorie per città più vivibili e amichevoli, il Made in Copenaghen sembra davvero fare rima con luoghi per una collettività ritrovata.

E che, sempre al Danish Architecture Centre, si ritrova nell’esposizione permanente, inaugurata a marzo, “So Danish”: un percorso tra storia e attualità del design e del progetto danese. La dinamicità di questa città è parte integrante delle esposizioni del DAC. L’uscita può avvenire – a proposito d’innovazione e creatività – attraverso uno scivolo di 40 metri e 4 piani, progettato da Carsten Höller. Un pezzo di arte contemporanea che si confronta con un’altra piccola esposizione temporanea, “Tales of the City”, visitabile fino a ottobre: 14 progetti dello studio Werk sul tema della comunità attraverso altrettanti modelli prodotti da Knud Romer. Tra storie di città e movimenti urbani.

 

La mostra “Copenaghen in Common” è prodotta dal Danish Architecture Center. Inaugurata ad inizio maggio, è visitabile fino al 25 febbraio 2024

 

 

 

Autore

  • Michele Roda

    Nato nel 1978, vive e lavora a Como di cui apprezza la qualità del paesaggio, la tradizione del Moderno (anche quella svizzera, appena al di là di uno strano confine che resiste) e, soprattutto, la locale squadra di calcio (ma solo perché gioca le partite in uno stadio-capolavoro all’architettura novecentesca). Unisce l’attività professionale (dal 2005) come libero professionista e socio di una società di ingegneria (prevalentemente in Lombardia sui temi dell’housing sociale, dell’edilizia scolastica e della progettazione urbana) a un’intensa attività pubblicistica. È giornalista free-lance, racconta le tante implicazioni dei “fatti architettonici” su riviste e giornali di settore (su carta e on-line) e pubblica libri sui temi del progetto. Si tiene aggiornato svolgendo attività didattica e di ricerca al Politecnico di Milano (dove si è laureato in Architettura nel 2003), confrontandosi soprattutto con studenti internazionali. Così ha dovuto imparare (un po’) l’inglese, cosa che si rivela utilissima nei viaggi che fa, insieme anche alla figlia Matilde, alla ricerca delle mille dimensioni del nostro piccolo mondo globale

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Last modified: 21 Giugno 2023