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Sergio PaceWritten by: Professione e Formazione

Paolo Portoghesi (1931-2023): filologia e invenzione

Paolo Portoghesi (1931-2023): filologia e invenzione

Protagonista della cultura architettonica degli ultimi 60 anni, con la forza tranquilla d’un indimenticabile eloquio e una scrittura avvolgente

 

Difficile riassumere in poche battute quel che ha rappresentato per la cultura architettonica degli ultimi sessant’anni Paolo Portoghesi, morto novantaduenne nel suo immaginifico regno di Calcata (Viterbo). Non è stato infatti soltanto uno storico formidabile ma anche un architetto prolifico; al tempo stesso, è stato docente universitario che ha segnato stagioni importanti della vita accademica italiana, così come intellettuale e bibliofilo raffinato, nonché organizzatore culturale di rilievo internazionale, rivelatore di talenti e tendenze, animatore di riviste ed esposizioni memorabili. Con la forza tranquilla d’un indimenticabile eloquio e una scrittura avvolgente, è riuscito a dialogare con studenti e maestri, amministratori pubblici e imprenditori privati, studiosi e professionisti, in dotti convegni accademici o in trasmissioni televisive dal grande ascolto, senza mai tradire le proprie intenzioni, convinzioni, e il proprio mestiere.

 

Gli scritti e la prima Biennale

Soprattutto in quelli comparsi tra metà anni cinquanta e metà anni settanta ha contribuito a ripercorrere itinerari già esplorati altrimenti – Roma barocca (1966), L’eclettismo a Roma (1968), Roma nel Rinascimento (1970) -, a riportare alla luce maestri trascurati se non negletti – Guarino Guarini (1956), Borromini nella cultura europea (1964), Bernardo Vittone (1966), Victor Horta (1969, con Franco Borsi) -, a curare una nuova edizione di un testo difficile – L’architettura di Leon Battista Alberti (1966) – o una nuova summa di sapere architettonico – Dizionario enciclopedico di architettura e di urbanistica (1969). Tale stagione, di fertilità quasi prodigiosa per un architetto nemmeno quarantenne, si chiude con un testo seminale, destinato ad aprire una nuova fase di riflessione: Le inibizioni dell’architettura moderna (1974) aiuterà un’intera generazione a riflettere senza preconcetti sull’eredità di un Movimento moderno che Portoghesi non mette mai in discussione nei suoi valori storici, ma chiede di ripensare criticamente, alla luce della tarda contemporaneità.

La strada è aperta: testi di risonanza internazionale – Dopo l’architettura moderna (1980), Postmodern (1982) – contribuiranno a rovesciare molti luoghi comuni, non soltanto storiografici, in consonanza con quanto la prima Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, da lui curata nel 1980, affermerà in maniera persino clamorosa. L’ultima fase, lunghissima, della propria ricerca sarà dedicata, da un lato, alla ricomposizione di un pensiero architettonico che provi a superare le soglie della temporalità, delineando quasi una sorta di eterno presente – Geoarchitettura (2005), Natura e architettura (1999) – ovvero, dall’altro, al ritorno alle passioni di sempre, con la riscrittura completa della propria monografia sull’architetto che lui stesso sentiva come affidatogli dal destino – Francesco Borromini. La vita e le opere (2020).

 

Le docenze accademiche

Nel frattempo, Portoghesi aveva vissuto anche molte altre vite. A Roma nei primi anni sessanta, ottenne l’insegnamento di un corso di Letteratura italiana per gli architetti, quasi paradossale, ma perfettamente in sintonia con le proprie passioni culturali; a Milano al termine dello stesso decennio, nelle vesti di preside della Facoltà di Architettura, animò una contestazione che portò alla sensazionale sospensione dall’insegnamento di alcuni dei più celebri nuovi maestri dell’architettura italiana; tornato a Roma, insegnò per anni discipline storiche, per poi terminare la propria carriera accademica come docente di progettazione, impegnato in un corso di Geoarchitettura.

 

I progetti

Nello stesso ampio arco di tempo, da fine anni cinquanta Portoghesi dà vita a una serie assai cospicua di progetti architettonici e urbanistici, inseguendo una propria linea di riflessioni compositive, sempre radicate nella fluidità delle forme tra passato e presente, natura e artificio: le case Baldi (1959-61) e Papanice (1966-70), la chiesa della Sacra Famiglia a Salerno (1969-74), la moschea di Roma (1974-95), l’Accademia di Belle Arti dell’Aquila (1978-82), il progetto della “Città Vallo di Diano” (1980), le residenze a Tarquinia (1981-88) e Alessandria (1987-91), le terme di Montecatini (1987-89), il teatro di Catanzaro (1988-2002), fino alla chiesa di San Benedetto a Lamezia Terme, consacrata nel 2019, costituiscono solo una parte d’un catalogo d’opere pressoché unico nell’architettura contemporanea italiana, per originalità e persino per capacità di sollevare dibattito e aspre controversie.

 

Architetto e storico dell’architettura: senza soluzione di continuità

Di là da ogni giudizio di valore sulle singole opere, la maniera migliore per ricordare Portoghesi è sottolineare quanto in lui abbiano convissuto le due anime, nutrendosi l’una dell’altra. Fin dagli anni di scuola, grazie a uno studio incessante, aveva coltivato letture eteroclite e spesso eretiche per un giovane studente di architettura, ma anche una conoscenza diretta di una città – Roma – cui è rimasto per tutta la vita legato d’affetto indissolubile. Per queste vie, presto si era convinto della necessità d’intendere la storia e la memoria quali elementi costitutivi dell’architettura, quasi materiali da costruzione indispensabili per comprendere le ragioni dell’elaborazione progettuale e, insieme, della restituzione storiografica.

È stato, questo, un elemento netto di distinzione rispetto ad altri storici e architetti della sua stessa generazione – Bruno Zevi e Manfredo Tafuri, innanzitutto – per i quali i due campi d’azione sono rimasti quasi sempre separati, quando non opposti. Portoghesi, al contrario, ha continuato a pensare lo spazio architettonico attraverso la ricerca storica e viceversa, praticando l’una per comprendere l’altro, in un’incessante attività di costruzione e decostruzione assieme. Grazie ai suoi lavori, quasi per la prima volta la storia dell’architettura è riuscita a sciogliere i legami con le plurisecolari interpretazioni che ne aveva dato la storia dell’arte: solo per fare un esempio, leggere le pagine dedicate a Borromini equivale a guardare quei suoi disegni dove la cupola di Sant’Ivo è ripensata per essere ricreata.

Una battaglia difficile, com’è facile intuire, che negli anni gli ha procurato nemici su entrambi i fronti, ormai definiti da una separazione delle carriere, anche universitarie, sempre più inesorabili. Tuttavia imperturbabile, attraversando stagioni diverse, ha fatto convivere pacificamente dentro di sé l’invenzione e la filologia.

Anche rispetto alla scena internazionale, questa posizione di equilibrio, talvolta prossima all’acrobazia, è stata del tutto originale. Come è stato possibile mantenerla? Quali gli strumenti che lo hanno reso architetto e storico al tempo stesso? In estrema sintesi, la risposta può essere trovata nell’esercizio del disegno e della scrittura, indissolubilmente uniti nella mente e nella pratica. Comprendere e restituire sono state per lui attività equivalenti: il segno grafico e la parola sono stati elementi complementari. Raramente tentato dal demone della teorizzazione astratta, Portoghesi ha scritto quel che ha disegnato, e viceversa: con medesima lucidissima tecnica, ha segnato il foglio di carta con tratto acuminato e, al tempo stesso, attento alle qualità narrative dell’immagine o del racconto. Grazie a questi principi, il corpus dei suoi scritti di storia è intessuto d’intuizioni filologiche brillantissime ma anche di seducenti descrizioni, dove esterni e interni sono raccontati con una magnificenza linguistica che pochi architetti hanno mai raggiunto. È forse questa l’eredità di Portoghesi, su cui la cultura architettonica contemporanea dovrebbe ancora riflettere. La scrittura, spesso trascurata nella formazione così come nella professione dell’architetto, dovrebbe ritrovare la propria centralità, accanto al disegno.

Con lui scompare l’ultimo vero grande intellettuale, storico e architetto assieme, ancora consapevole della potenza della parola, dell’espressione, dell’aggettivazione, della morfologia del discorso che si fa morfologia del pensiero che a sua volta si fa morfologia architettonica e urbana: elementi ancor’oggi indispensabili per raccontare lo spazio abitato dalle donne e dagli uomini, e persino dalle piante e dai suoi amati animali, in ogni tempo e luogo.

Autore

  • Sergio Pace

    Professore ordinario di Storia dell'architettura presso il Politecnico di Torino, dove è anche referente del Rettore per Biblioteche e archivi storici. Ha lavorato e pubblicato principalmente sull'architettura europea e la città del XIX secolo, così come sull'architettura industriale e la ricostruzione dopo la Seconda guerra mondiale, con particolare attenzione all’opera di Carlo Mollino. Negli ultimi anni si è dedicato alle culture architettoniche dell’eclettismo europeo e alla città di Nizza, tra la tarda età moderna e la prima età contemporanea

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Last modified: 5 Giugno 2023